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La verità

(post segnalato dalla redazione)

 

 

La solitudine avvolge le mie giornate. Dopo che è morta mia madre e Luisella se n’è andata, la casa si è vuotata d’immagini e suoni. Il tempo è sfumato via in un’alternarsi di giorni identici ai battiti del mio cuore.

Il volto di mio padre in divisa militare, mi sorride da sotto il vetro della cornice del portafotografie. È in licenza, un breve periodo d’oblio prima di morire, ma lui questo, allora, non lo sapeva ancora. Sarà la guerra di Grecia a portarlo via da me e da mia madre. Un caduto come tanti altri, giovani dai sogni bruscamente infranti, numerose vite spezzate.

Quando tutto ciò accadde io avevo un anno. Il ricordo di mio padre è breve e confuso, integrato dai ricordi narrati da mia madre e dalla sua fotografia, per me unica testimone della sua immagine.

 

Mia moglie Luisella odiava quella fotografia, non tanto per la sua immagine, ma per quell’assurdo altarino, dispostole dinanzi da mia madre, ornato di pizzi e fiori. A lei, spirito esuberante per natura, tutto ciò appariva lugubre e tetro.

Ma ora anche lei se n’è andata. È difficile conciliare caratteri diversi. Le liti si susseguivano in un alternarsi di giornate, prolungandosi per intere settimane.

Se n’è andata durante una lite. Ha urlato: “Basta, non ce la faccio più! vado a stare da mia sorella.”, ha raccolto attorno a se poche cose che ha gettato in una sacca da viaggio ed è uscita sbattendo la porta.

Lentamente un senso di pace è sceso tra le mura dell’appartamento. Ascoltavo il silenzio che si dilatava nello spazio, tra una camera e l’altra, provavo un senso di liberazione, così acuto e intenso, che mi sembrava di volare.

 

Dopo innumerevoli mesi trascorsi a guardare immagini luminose proiettate dallo schermo del televisore, con il pensiero completamente assente, mi sono finalmente deciso ad acquistare un computer e connettermi alla rete internet. Sono state le numerose insistenze dei miei colleghi a farmi prendere questa decisione. “Vedrai, ti piacerà!” continuavano a ripetermi, ma io non volevo prestare orecchio alle loro parole.

Poi, mi sono di colpo trovato a contatto con un mondo nuovo.

Ora divido le mie giornate, il mio tempo libero e le mie notti, con i fantasmi di questo mondo sommerso. Accendo il computer, mi connetto e navigo; a volte l’alba mi coglie ancora chino sullo schermo.

 

Da giorni ho conosciuto una certa Diana Papadopulos, una donna greca che parla l’italiano. L’ho conosciuta casualmente cercando notizie sui luoghi dove mio padre combatté e morì. Com’è curioso il destino, e che oscuri percorsi usa per ascoltare i nostri silenzi, affiancare le nostre solitudini, imprimere nuovi indirizzi alle nostre vite.

Diana, inutile dirlo, ha anch’essa alle spalle un’unione miseramente naufragata. Nel corso di numerose serate mi ha portato a conoscere i fatti più intimi della sua vita, riversando nella mia anima un po’ di quell’intenso calore della sua terra. Mi pare già di conoscere ogni suo gesto.

 

Ieri ho ricevuto una sua fotografia. Un viso su cui si apriva un caldo sorriso mi osservava dallo schermo. Ho stampato la sua immagine e l’ho appesa sulla parete di fronte, là dove il mio sguardo solitamente, sollevandosi dal computer, si posa.

Attendo quotidianamente con ansia ogni suo nuovo messaggio. A volte mi rendo conto che mi sto innamorando d’immagini e parole che vivono di vita propria su uno schermo. Altre volte, con sconcerto, penso che non conosco nemmeno il suono della sua voce.

Diana mi ha confessato che tra le sue amicizie la mia sta iniziando a rivestire un posto particolare. La nostra è un’affezione improvvisa, parallela e disperata. Mi rendo conto che questa situazione sta diventando assurda e irrazionale. Sono coinvolto in una storia che è nata all’improvviso, in un’età poco consona a questi sentimenti, come un fiore tardivo, sbocciato in un giardino d’inverno.

Nella sua ultima e-mail, Diana, mi ha scritto che anche lei è sconvolta da questa situazione inaspettata e priva di ogni logica, non riesce a spiegarsene il motivo, è come se un’invisibile e gioiosa forza premesse contro di noi, legando i nostri destini.

Siamo due persone adulte con pochi anni che ci differenziano (lei ha una manciata d’anni meno di me), che ci siamo trovati coinvolti e legati da una irrazionale infatuazione.

Che cosa ci sta succedendo?

Tutto questo dove ci porta?

 

Ho preso un periodo di vacanza, l’aereo mi sta trasportando ad Atene, fra poche ore finalmente la raggiungerò. Dall’oblò dell’aereo guardo le nubi che formano un enorme tappeto d’ovatta disteso tutto attorno a me. Un tappeto augurale. Ardo dalla curiosità di vederla. Sarà come l’ho immaginata sinora?

Mi deluderà? La deluderò? Quale sarà il nostro futuro?

 

 

Caldo, una sensazione di calore mi avvolge e mi sconvolge. Mi affaccio boccheggiando al parcheggio esterno dell’aeroporto, tra il frastuono dei rumori e dei richiami urlati a piena voce. Trascino la mia sacca da viaggio contenente i miei pochi oggetti personali. Comunque vadano le cose voglio avere una scusa pronta per un rientro improvviso.

Poi, mi scuoto dalle mie riflessioni, alzo gli occhi e la vedo. È in piedi, immobile lungo il bordo del parcheggio, là, oltre la fila dei taxi. Stringe nervosamente le mani, ha un’aria persa, un po’ infantile. Indossa un largo abito di cotone bianco. Il trucco del suo viso, dal gran calore sta lentamente colando.

Mi osserva silenziosa, e per un istante, i nostri occhi sono pieni d’angosciosi interrogativi.

Ci muoviamo abbracciandoci con imbarazzo. Il suono della sua voce è basso e armonioso. Sorrido imbarazzato. La osservo con piccoli sguardi laterali, mentre ci dirigiamo verso la sua vettura. Noto che lei fa altrettanto.

Ci ritroviamo nel caotico traffico, avvolti dai suoni dei claxon, lei urla qualcosa al mio indirizzo, ma la sua voce si dissolve tra il caos di rumori.

 

Una piccola casa, dalla facciata imbiancata a calce, ci accoglie. All’interno la penombra è gradevole, invitante. Mi adagio su una poltrona, frastornato dal viaggio. Faccio fatica ad adattare gli occhi feriti dall’intensa luce esterna. Poi, a poco a poco, le forme prendono vita assumendo la propria fisionomia.

Diana in cucina è intenta a preparare il caffè, alla turca, forte come piace a lei, me lo ha descritto molte volte che mi pare già di assaporarne il gusto.

Numerose cornici appese al muro mostrano il suo viso nelle varie età della sua vita. Mi alzo, mi avvicino al muro e osservo meglio le fotografie. Il suo sorriso spontaneo è una caratteristica che si ripete, nelle varie pose, sin dai suoi primi anni d’età. Vi sono alcune fotografie molto vecchie, qualche parente, immagino, poi di colpo rabbrividisco.

 

Il volto di mio padre in divisa militare, mi sorride, da sotto il vetro della cornice del portafotografie.

 

Allibisco interdetto, cercando attorno a me i rassicuranti segni della mia abitazione. Ma non li trovo. Sono proiettato altrove, in un luogo e in uno spazio diverso, straniero, distante infinite miglia dalla mia casa.

Diana entra nella sala reggendo il vassoio con le tazze di caffè, interrompe i suoi passi osservandomi turbata. Punto il mio indice contro l’immagine appesa al muro poi esclamo:

- Come hai avuto questa foto?

Lei mi guarda interdetta per un istante stemperando il sorriso acceso sul viso, poi con un velo d’improvvisa tristezza che irrigidisce il suo volto, dice:

- È l’unica fotografia che ho di mio padre, sai lui non amava molto farsi fotografare, - La guardo allibito, mentre lei continua a parlare, dicendomi:

- I miei genitori non poterono mai sposarsi, malgrado le ripetute richieste di documenti che mio padre disse di avere inviato all’ambasciata italiana. Ci disse che per via della situazione caotica che vi era allora, con l’Italia divisa in due parti, e i continui bombardamenti degli inglesi che avevano distrutti tutti gli archivi, non era più possibile averli.

Ora Diana siede di fronte a me e silenziosa mi osserva. Cammino lentamente davanti a lei, attraverso la stanza con una infinità di pensieri che vorticano furiosamente nella mia testa. Mi blocco all'improvviso, la osservo e le domando:

- Dov’è ora tuo padre? -

Diana trattenendo a stento le lacrime dice:

- È successo alcuni anni fa... fu un brutto incidente d’auto, lui e la mamma sono morti entrambi. Un camion sbandando all’uscita di una curva ha invaso la loro corsia, tutto è successo in pochi istanti, non hanno nemmeno avuto il tempo d’accorgersene.

Ora tace, soffiandosi con un fazzoletto il naso. Senza rendermene conto, ho afferrato la mia sacca da viaggio, sconvolto, ho spalancato la porta d’ingresso, poi uscendo, mi sono voltato l’ho fissata per un istante negli occhi, e le ho detto:

- Ti scriverò... sorella, giuro che ti scriverò!

 

 

Devo questo racconto a una storia che mi raccontò, anni fa, una amica. Ogni riferimento a luoghi o persone reali è puramente casuale.

 

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