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Verso altre solitudini

Guai se te lo avessi detto quella sera, non saresti stata ad ascoltarmi, presa com’eri da quel tuo lavoro. Era già iniziato ad imbrunire, e tu, china sul tavolo, continuavi a tagliare e imbastire pezze di stoffa che poi univi sotto l'ago della macchina da cucire.

Scorgevo quei segni di stanchezza sul tuo viso, gli stessi che vedevo in te, dopo aver fatto all’amore, ma tu parevi non volergli dar peso, quasi ad allontanare con il gesto la cappa di stanchezza che ti era calata addosso.

Ero uscito sul balcone per respirare un po’ d’aria fresca. Assorto, osservavo gli ultimi raggi di sole che si sfrangiavano, come numerosi nastri, dietro i rilievi montuosi della valle. La temperatura era scesa, ed io avevo sollevato il colletto della giacca e, infilate le mani nelle tasche dei pantaloni, pensavo a te, Marta, perché questo è il tuo nome, famigliare a tutti, qui in paese, ed a com’eri entrata nella mia vita.

Mi eri apparsa sorridente sulla soglia della tua abitazione, molto tempo fa, quando, dovendo rinnovare parte del mio guardaroba, mi ero presentato alla tua porta per commissionare un abito. Mi aspettavo di veder apparire sulla soglia un’anziana signora, con tanto di occhiali dalle spesse lenti, e un portaspilli agganciato sopra il seno, quando vidi apparire una giovane donna dagli occhi profondi e scuri come la notte che mi domandò incuriosita:

- Si?

- Cercavo sua madre, la sarta. - Avevo detto sovrappensiero ammirando le sue grazie.

- Mia madre non c’è, ma se cerca la sarta, quella sono io. - Mi aveva risposto sorridendo, poi mi aveva fatto entrare nel suo laboratorio, e subito dopo nella sua vita.

 

- Sono pronta, andiamo. - La tua voce mi aveva scosso dai miei pensieri, mentre tu ti eri infilata la giacca del tailleur appesa all’attaccapanni dell’ingresso. C’eravamo avviati alla porta. Ti seguivo silenzioso. Si prospettava una serata identica a molte altre. La solita cena nella trattoria d’angolo, poi saremmo saliti nuovamente da te, avremmo fatto l’amore distesi sul divano del soggiorno. Pur frequentandoti ormai da molto tempo non ero mai riuscito ad accedere alla tua camera da letto. Tu, un giorno, indicandomi l’antico letto matrimoniale, avevi esclamato:

- Lì ci verrai quando ci sposeremo! - avevo riflettuto a lungo, rimuginando su quelle parole. Non avevamo, mai prima d’allora, parlato di matrimonio; evidentemente i nostri pensieri correvano su binari diversi. Ero giunto in questa città due anni prima, spinto da motivi professionali, e da un anno avevo conosciuto te. Ricordo ancora con chiarezza i primi giorni dei nostri incontri, dove l’ardore della passione consumava i nostri corpi, infiammandone le anime. Poi, sopita la pulsione iniziale, acquietati gli incontri, il nostro rapporto era confluito nei consueti gesti della vita.

Ora lunghi silenzi accompagnano le nostre azioni, e io, quando non viaggio per lavoro, e quando non passo la notte da te (combattendo con le cigolanti molle del tuo vecchio divano), trascorro il resto delle ore alloggiando in una vecchia pensione poco distante dalla tua abitazione.

Viaggio sovente per lavoro, attraversando paesi del nord dell’Europa, trascorrendo così parte del mio tempo libero visitando luoghi e città. Mi sembra di non avere radici, di non averle mai avute, anche quando al rientro raggiungo Marta, ho la fugace sensazione di essere, per un istante, ritornato nella mia casa d’infanzia, un legame ormai dissolto da anni dopo la morte dei miei genitori, ma questa sensazione si dissipa subito, lasciandomi un acuto senso di vuoto. Sono così peregrino nella vita, che tutto ciò che mi attornia mi sembra provvisorio ed estraneo.

 

Il nostro tavolo ci attendeva nell’angolo della trattoria. Il locale era deserto. Di lì a poco si sarebbe animato.

- Dimmi una data… - La voce di Marta mi distolse dalle mie riflessioni.

- Una data per cosa? - Le chiesi, sollevando in parte la mia coltre d’apatia.

- Ma per il nostro matrimonio, no?, - mi rispose con voce allegra.

- Matrimonio? Veramente non ci ho ancora pensato…

Le risposi di getto, congelando così il suo entusiasmo, rimase per un istante perplessa, poi riprendendo il discorso disse:

- Vedrai che saremo felici. Non puoi vivere tutta una vita viaggiando da un posto all’altro come un pellegrino senza una casa, prima o poi dovrai fermarti. Ho parlato con un mio parente che lavora presso il ministero, lui ti troverà un impiego, potremo quindi trasferirci nella capitale… Io aprirei lì una sartoria, lavoro ce n’è in abbondanza, basta avere i contatti giusti, potremmo comprare un appartamento e sistemarci lì; in fondo stiamo bene insieme, non trovi?

- Sì, stiamo bene insieme… - ammisi a malincuore, mentre sconcertato meditavo sulle sue parole. Non avevo timore per il nuovo lavoro, in fondo l’uno vale l’altro, non per lei, a cui ormai ero affezionato, non per la perdita della mia libertà o delle mie ambizioni; perché con il passare degli anni tutte le cose si levigano, smussando gli spigoli, perdendo l’ardore e il significato degli anni giovanili. Temevo, in me, per il vivo senso di disagio che ogni legame affettivo mi genera: con Marta o con un’altra, sarebbe stata l’identica cosa, ma questo lei, non provandolo, non l’avrebbe mai capito.

Ora mentre lei dorme, dopo i consumati gesti sul cigolante divano, preso da un incontenibile stato d’ansia, sono uscito, mi sono recato alla pensione, poi, infilate le poche cose che possiedo in una valigia, ho saldato il conto. Ho preso il primo volo per Tunisi. Dall’aeroporto ho inviato un telegramma all’azienda dove lavoro, annunciando che prenderò un lungo periodo di ferie arretrate.

Mi sposterò all’interno del paese, cercherò di inoltrarmi verso il deserto. Guardo ai miei piedi, le logore e consunte scarpe, fedeli compagne del mio peregrinare, e penso che questa volta si tratterà di un lungo viaggio.

 

Uno schiaffo di calore si abbatte sul mio viso, abituato all’aria condizionata all’interno dell’aereo, boccheggio, appoggiandomi stordito al mancorrente della scaletta della passerella. Dopo un breve tragitto in taxi, dall’aeroporto alla città, mi infilo nell’invitante ombra di un bar. Il rumore del traffico, il frastuono delle voci, gli innumerevoli richiami, sovrastano i rumori più prossimi all’interno del locale. Sento la sabbia, che con il calore sarà, d’ora in poi, l’elemento costante delle mie giornate, posarsi addosso ai miei abiti, avvolgere il mio corpo.

Sento la bocca impastarsi di sottili granelli di sabbia. Poso lo sguardo su un gruppo di uomini seduti nell’ombra di un vicolo, fumano lentamente una pipa ad acqua; lente volute di fumo, salgono leggere nell’aria, sfiorano, sino a lambirne il bordo, un colorato tappeto appoggiato su un parapetto di un terrazzo imbiancato a calce, poi si dissolvono in un cielo azzurro, intenso.

Ora la luce sta scemando, l’ombra, nello stretto vicolo, scende a coprire i disegni del tappeto, non distinguo più il tratto dei disegni arabescati. Il bianco abbacinante degli edifici ha lasciato posto ad un colore rossastro, lo stesso colore della sabbia, del tramonto.

Guardo in alto, nel cielo stellato, la mezza luna che brilla come il riflesso di una falce nella notte.

Domani mi unirò ad una carovana che si spingerà verso l’interno del paese. Calpesterò le sabbie del deserto, certo che la solitudine di quei luoghi sarà l’adeguato contrappunto della mia solitudine interiore.

 

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