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A ruota libera (Cap. 12)

                                                                        XII
                                       PRIMAVERA - ESTATE DEL 2000
 
 01 Febbraio 2006
 
Ora che ci penso è da un po’ di giorni che Carmen non si fa più sentire. In compenso mi ha chiamato Benedetta, una mia vecchia conoscenza. Splendida ragazza. Capelli lunghi e mossi castano biondi, alta, occhi marroni, formosa da paura, con uno stacco di gambe da far invidia a una giocatrice di pallavolo, non esagero. Adoro il fascino, non la bellezza, e Bene ne aveva, anzi ne ha (per fortuna è ancora una nostra contemporanea) da vendere di entrambi. Una ragazza come poche se ne trovano in giro. Napoletana, anzi no, mai sia, ‘Puteolana doc’(*), come diceva sempre lei. L’ho conosciuta in un villaggio turistico a Otranto, dove sono andato con il mio grande amico Gino l’estate in cui sono stato io a lasciare Claudia. Un carattere, una verve e un’energia quelli di Benedetta che solo la gente delle sue parti riesce ad avere. In nessun’altra zona d’Italia riescono a essere così. E questo, nel bene e nel male. E’ subito nata una certa simpatia tra noi, credo spinta anzitutto da un’altrettanto forte attrazione fisica. Lei, bella come madre natura l’ha fatta, io più che mai tirato e definito da sei mesi di palestra e sacrifici alimentari da non ripetersi per chiunque voglia restare mentalmente sano.
Ci siamo piaciuti da subito. Senza dubbio. Anche se il primo passo, strano a dirsi, l’ha fatto lei - ma con me è normale, non ho mai rischiato rifiuti in vita mia - tecnicamente detti: pali - anche quando sono stato quasi sicuro di esser piaciuto a una donna -.
 
(*) Di Pozzuoli
 
Un giorno, mentre tornavo da mare, era ferma a chiacchierare con due sue cugine, altrettanto aitanti, e alcune amiche da non disdegnare, sul vialetto che portava agli appartamenti della zona B del villaggio turistico dove entrambi soggiornavamo. Passandole praticamente davanti, ho sorriso ai fischiettini accennati e battutine un po’ da caserma tra i denti proferite in maniera confusa dall’allegra brigata tutta al femminile, e così, una cosa tira l’altra, io e Benedetta siamo finiti a letto con buona pace di entrambi.
Quell’estate, me lo ricordo come fosse oggi, avevo bisogno di evadere, di fuggire dalla routine. Ero alla sfrenata ricerca di conferme personali in grado di farmi sentire ancora desiderato.
All’epoca avevo otto anni alle spalle di relazione con Claudia e la cosa mi pesava. Mi pesava dannatamente. Lei lavorava da circa un anno e mezzo in una piccola banca del sud, in provincia di Lecce, a circa 150 km da Bari. Tornava a casa, dai suoi e da me, soltanto nel fine settimana. Salvo non mi chiedesse di andarla a trovare per trascorrere lì l’intero weekend.
Viveva con Anna, la sua amica, la donna dai mille problemi. Che all’epoca stava ancora con Daniele. Ricordo che però, già da un po’ in quel periodo, soprattutto con l’approssimarsi dell’estate, le nostre vite, mia e di Claudia, avevano cominciato a viaggiare a velocità differenti. Io studiavo nove, dieci ore al giorno, cercando di accelerare i tempi della laurea, nel disperato tentativo di recuperare gli anni perduti a cazzeggiare (ma all’università solo i raccomandati recuperano). Lei invece, laureata in anticipo – è sempre stata molto in gamba negli studi - con il massimo dei voti e plauso della commissione, dopo un anno di lavoretti saltuari era stata chiamata da questo istituto di credito del centro sud Italia e aveva quindi dovuto accettare l’allontanamento. Che comunque era stato del tutto ragionevole: per distanza innanzitutto, colmabile con facilità con poco più d’un ora d’auto, e poi per qualità della destinazione.
Lecce infatti, è una cittadina universitaria stupenda, al centro del favoloso Salento. Un luogo che non si può non adorare.
Per cucina, mare, sole e divertimenti vari.
Claudia lì tutta la settimana a lavorare, e una convivenza con la sua amica del cuore, io a Bari, solo, a studiare come un forsennato tre esami per volta assorbito dalla volata verso la tesi. Come dalla palestra, dal nuoto e da tutto quanto mi restituisse una splendida forma fisica. Concentrato su me stesso, e soltanto su di me, trovavo sempre meno tempo per lei, per i suoi problemi, per quelli di entrambi e per la coppia che eravamo. Cinico e narciso da far paura, avevo smesso di occuparmi delle cose che contavano, o avrebbero dovuto.
Sembrava quasi volessi prendermi una rivincita con il mondo, e con Claudia. Proprio con lei, ma che idiota! Dovevo e volevo dimostrare che anch’io, nonostante i miei tempi di studio si fossero dilatati a non finire, e in più avessi rischiato ripetute volte di mandare ingegneria a quel paese, sarei stato in grado di dire la mia. In tutto e con tutti. Come al solito devo sempre fare lo sbruffone. E allora vai con ore e ore di palestra, nuoto e studio. E poi ancora studio, palestra, nuoto, corsa, tennis, e tutto lo sport che si può nelle pause pranzo e di sera, quando i libri sono stati accantonati.
Mentre Bi recriminava attenzioni, telefonate e quello che abbiamo sempre condiviso insieme. La nostra vita di coppia felice. Ma in quel periodo la mia testa era in piena involuzione autoesaltativa.
La felicità di coppia non mi interessava.
Shmmm… che cretino sono stato…
Una fase che stento ad accettare essermi accaduta davvero, e di cui oggi, ammetto, un po’ mi vergogno. No, non è vero, mi vergogno parecchio. Sebbene sia stata necessaria a farmi sbagliare, a farmi capire, a soffrire e riprendere la vecchia strada.
A comprendere quanto quella ragazza che mi era sempre stata accanto nei momenti peggiori, l’unica che si era dovuta sorbire i miei malesseri, le mie paranoie, i miei sbalzi d’umore, il mio andare a mille e tutto quanto il resto fosse la sola persona che mai avrei dovuto ferire così, in quella maniera, e con tanta cinica freddezza. L’unica e sola che avrei mai potuto amare davvero. Invece, un bel giorno, dopo alcune avvisaglie durate alcune settimane, sino alla seconda metà di luglio, l’avevo lasciata di punto in bianco.
“Sì Bi, non ti amo più.”
Furono queste le parole, ‘sentite’, dette una sera mentre facevamo ritorno a casa. Pronunciate, ricordo chiaramente, nei brevi istanti in cui le lacrime, a conclusione di un’accesa discussione fatta di recriminazioni e accuse reciproche, avevano già preso a inondarle gli occhi, sino a farla piangere da togliere il fiato. E più lei piangeva, più io mi allontanavo con la mente. Ho ribrezzo di me quando penso a ciò che ho fatto, e al dolore che sono stato in grado di infliggerle.
Oggi posso solo odiarmi, e forse neanche quello. Magari la mia è soltanto mera pietas per il lato di me più misero. Un essere umano che ha ferito e umiliato un altro essere umano.
L’unico con cui aveva condiviso sempre tutto.
Tutto, nel bene e nel male.
Ma quell’umiliazione incontenibile, non è mai derivata dall’aver deciso unilateralmente, come quasi sempre avviene in amore, di dividere d’improvviso le nostre strade, quanto piuttosto dalla crudeltà con cui non sono riuscito a comprendere come la proiezione della nostra separazione sarebbe potuta arrivarle così tanto dentro al cuore. Sparata lì, come una bomba silenziosa, a orologeria, che al momento opportuno sarebbe esplosa dirompente, d’improvviso.
Dilaniando per sempre la sua anima, e lasciando vivere le sue carni su ciò che ne sarebbe rimasto. Nonostante tutta la disperazione di Claudia, nulla sembrava scalfirmi. Il mio animo, come congelato. Forse non volevo soffrire insieme a lei, o forse ero semplicemente e banalmente divenuto uno squallido egoista cui non andava più di rinunciare a nulla pur di compiacere il proprio ego in continua crescita. Non lo so, eppure il dolore di Claudia era ormai lontano. Sempre di più, a ogni attimo, a ogni minuto che passava.
Vicino, reale, quasi in grado di accarezzarmi la pelle, eppure così distante dal mio cuore da non sembrare neppure dolore.
Tutto quel sentire, tutto quello strazio, sembrava non riuscisse a sfiorarmi. Neppure un briciolo. Per niente.
Poi finalmente, dopo la pausa Benedetta, e alcuni mesi trascorsi a far finta di esser un altro, ho aperto gli occhi, d’improvviso. Capendo nel tempo d’un respiro, la stoltezza del gesto commesso. Ho cercato allora di tornare indietro, di annullare il tempo e i dolori, di cancellare gli sbagli, di indurre tutti, me per primo, a dimenticare. Sì lo ammetto, ho avuto questa perversa e dannata presunzione.
Che ho aggiunto alle tante collezionate con assoluta maestria nei lunghi anni trascorsi insieme. Mi sembrava fosse andato tutto per il meglio, perché Claudia era lì, ancora lì, che mi aspettava.
Oggi, col senno di poi, credo sia stata soltanto un’illusione, un miraggio dell’anima. L’espressione di ciò che la mia paura non voleva si materializzasse d’improvviso: averla persa per sempre. Ma lei, in realtà, aveva già cominciato ad andare via.
A perdersi, lontano da me, per sempre.
Materialmente l’avevo di nuovo al mio fianco, certo, ma quella era soltanto la controfigura di Claudia, della mia piccola dolce Bi. La stessa che per il troppo dolore aveva invece scelto, per autodifesa, per puro istinto di autoconservazione, di allontanarsi irrimediabilmente. Non lo sapeva ancora, eppure era esattamente così. Oggi, se mai dovesse ripensarci, saprebbe anche lei dentro di sé quale sia stata la verità allora. E qual è la verità oggi. Troppo tardi purtroppo, per entrambi. Lo scollamento tra le nostre vite, mia e sua, è incominciato in quei giorni, in quelle settimane, in quei mesi. Per poi proseguire in altri giorni, altre settimane, altri mesi.
Per oltre cinque anni.
Sino al 09 dicembre dell’anno scorso.
Anno Domini 2005.
Quando lei, Bi, la mia Bi, mi ha lasciato.
...Per telefono.
 
 
 
 

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