A ruota libera (Cap. 4) | Prosa e racconti | Claudio | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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A ruota libera (Cap. 4)

IV
I GIORNI CHE NON PASSANO
  
E’ domenica finalmente.
O purtroppo.
In fondo che cambia?
Antonello avrà già saputo, ora chissà cosa sta pensando lì a Foggia, dove lavora adesso. Non resta che dirlo anche agli altri. Pippo innanzitutto. E’ come un fratello per me, è giusto sappia, al più presto. Provvederà lui con Mara. Già immagino le loro facce, le loro espressioni ammutolite.
Fhummm… ci vedevano sposati entro il 2007.
“Vito, allora addobbiamo l’albero? Dai, ci togliamo il pensiero, che ne dici?”
E’ mia madre. Le avevo promesso l’avrei aiutata a prepararlo subito dopo la vigilia dell’Immacolata, ora non ho la faccia di rifiutare. Se ci provo comincerà a borbottare, meglio evitare. In fondo una promessa è una promessa. E a me piace mantenerle sempre, con chiunque. L’angoscia, muta e sorda, mi continua a montare dentro, inarrestabile. Spero solo non tanto da cominciare a inumidirmi gli occhi. Temo altre lacrime calde, pesanti e salate.
“Sì va bene, fammi finire di leggere il giornale e lo facciamo.”
Comincia a tornarmi il groppone in gola. Mia madre inizia a sballare l’albero finto, quello a fibre ottiche comprato l’anno scorso, e mentre l’aiuto la mente inizia a pensare, irrefrenabile. In silenzio, senza dir nulla. Prego dentro di me non mi arrivi la sua solita raffica di domande. Non la reggerei, davvero. Sono concentrato. Mi auguro solo lei si convinca sia per la maniera con cui comporrò tutti gli addobbi, quest’anno. Continua ad armeggiare con l’albero, io passo a scartare statuine, palline colorate di tutti i tipi e fili dorati, l’uno dopo l’altro, poco più in là, nel corridoio. Vicino alla porta d’ingresso. E’ lì che allestiremo come al solito, come sempre, l’albero di Natale.
I pensieri, intanto, continuano ad affannarsi. Prima pochi, poi numerosi. Troppi per evitare che riesca nella mia commedia senza che nulla traspaia. Questo sarà il primo Natale, dopo oltre tredici anni, che trascorrerò da solo.
Fuori e dentro.
Anzi no: il primo è stato quello del 1987.
Il 23 dicembre di quell’anno, a mezzanotte e cinquanta, nonna Flora ha respirato per l’ultima volta. La persona che più ho amato, in assoluto, in vita mia. Eravamo un tutt’uno, io e lei. Tra di noi 64 anni di differenza, azzerati dall’amore infinito che nutrivamo l’una per l’altro. Che ci legava dal mattino alla sera, ogni santo giorno. Ancora esiste, quell’amore enorme, senza confini di tempo e di spazio. Forse, per alcuni versi, più forte di prima.
Il 24, la vigilia di Natale, promisi a me stesso che nessun altro giorno sarebbe stato più triste di quell’addio definitivo. Oggi, a quasi vent’anni dalla sua scomparsa, la mancanza di nonna Flora è sempre viva e presente. A volte dilaniante nella sua intensità. Il solo pensiero che l’assenza di Bi possa divenire tale, mi terrorizza. Fagocita affamato ogni mia residua certezza che la storia non possa e non debba ripetersi, stavolta.
In parte è così, visto che Claudia è viva. Solo non c’è più.
Non mi è accanto oggi e non lo sarà domani. E poi domani ancora, sempre. Bi, ora non è più mia. Chissà se lo è mai stata.
In ogni caso, il fatto che sia viva, che ci sia, mi consola.
L’albero è finito. E’ venuto bene, forse addirittura meglio degli ultimi anni. Chissà non sia vero che la sofferenza aiuti, stimoli la fantasia, e il dolore che hai dentro si riesca a trasformare in energia e vena creativa. Persino nella maniera di addobbare un semplice albero di Natale. Finto e a fibre ottiche.
“Che carino!”
Flora è contenta e le piace, davvero. E’ sincera.
“Aiuta tu mamma a togliere queste carte e gli aghi sintetici dell’albero che sono caduti. Guarda in giro, sono un po’ dappertutto.”
“Uffa!”
“Dai Flora, fa’ qualcosa ogni tanto, magari anche solo per sbaglio, uhm?!” non riesco a trattenermi.
“Sì, ma perché io, se l’albero l’hai fatto tu!”
“Appunto per questo, ognuno deve fare qualcosa. In famiglia è così, dovresti saperlo. E poi dai, su, neanche ti avessi chiesto chissà quale sacrificio.”
Mia madre mi dà manforte.
“Flora, ti aiuto io. Ci mettiamo poco insieme. Hai visto anche tu com’è venuto bene quest’anno l’albero. E’ splendido.”
Mia sorella mi guarda con aria seccata, sa che non riuscirà a svignarsela. Le rispondo con lo sguardo, ma i miei pensieri, le mie parole, i battiti del mio cuore sono altrove.
Sbuffa, proprio non le va di ascoltarmi. Pigra, indolente e viziata. Anche così, però, sarebbe stata ugualmente la gioia di nonna Flora. Cosa avrebbe dato per poterla crescere insieme a noi. Purtroppo, è soltanto riuscita a sapere che sarebbe nata… Claudia ha sempre voluto bene a mia sorella, ma non è mai riuscita ad avvicinarsi a lei più di tanto. Come avrei voluto, come avrei sperato. Non lo ha fatto, e soprattutto non ci ha mai provato. Con Sandro, la stessa cosa. Anche quando si è fidanzato con Marina. Ci andava d’accordo, con tutti e due, ma nulla di più. Per nessun motivo in particolare, semplicemente Claudia si trincerava dietro la sua timidezza. Non si sforzava di vincerla, neppure sapendo quanto l’avrei gradito, ed è sempre stata una cosa che non mi è mai andata giù granché, negli anni. Per me la famiglia è sacra, quindi come io adoravo e adoro la sua, mi sarebbe piaciuto lei avesse fatto altrettanto con la mia.
Soprattutto quanto i miei familiari abbiano sempre tenuto a noi due. Un vero peccato, ma è così. Ormai non credo si potrà mai più rimediare.
E’ angosciante e sfibrante al tempo stesso: ogni riflessione mi riporta a lei, a Claudia. Comunque, sempre. Da qualunque presupposto si parta. Non è possibile, non ne uscirò mai.
Mai, è inutile...
Le ore sono interminabili, non passano.
Il tempo sembra essersi arrestato.
Speriamo acceleri, prima o poi.
Buonanotte Claudio.
 
Vedrai, passerà…
 
 
 
Lunedì 11 dicembre. Ore 8.45.
 
Sveglia – Colazione – Tragitto sino in ufficio.
In radio: ‘Quando due si lasciano’, di Anna Tatangelo.
E che cavolo! Ma si può!?
Una sola alternativa, il fulmineo click sul pulsante del volante per passare a un’altra stazione.
L’unica mossa in grado di non farmi andare a schiantare con la Focus contro qualche muro della zona industriale, mentre piango fiumi di lacrime che m’inondano le lenti impedendomi di scorgere bene la strada.
Sono appena arrivato. C’è solo Giacomo, a quest’ora è difficile trovare qualcun altro. Gli sembro il solito, non sospetta nulla. Tutto sembra normale, e in realtà lo è. Per tutti, tranne che per me. Tra un po’ cominceranno ad arrivare gli altri colleghi e sarà la mia prova del fuoco. Il primo giorno di lavoro da single. Senza Claudia. Ci metterò poco a capire per quanto tempo potrò evitare che il dolore cominci a liberarsi. A riversarsi oltre la mia anima, ormai troppo angusta e stretta per trattenerlo.
“Ciao Cla.”
“Ehi… Leo.”
Si sistema, come ogni giorno, sulla scrivania adiacente alla mia. E’ un tipo molto simpatico, divertente, anche lui ingegnere.
“Come è andato il weekend?”
“Al solito, niente di particolare” cerco di liquidare il discorso. Ostento un’aria distratta, tutto deve sembrare normale.
Poi accende il portatile e inizia a lavorare. Il mio è acceso già da un quarto d’ora. La testa, invece, spenta come una radio d’epoca in disuso. Del tutto over. Non di certo concentrata sul documento che mi sta davanti, sul monitor. E’ altrove, da tutt’altra parte.
I minuti passano, l’Open Space si riempie. Siamo in piena giornata lavorativa. Via vai di persone, continuo trillare di telefoni, andirivieni di fornitori ed esterni che cercano l’ingegner Tizio, l’architetto Caio. Il ritmo cresce, la pressione anche. Dentro di me calma piatta.
Sentimentalmente, un inferno.
Un vero incubo che mi sovrasta, da cui non riuscirò a uscire.
“Vieni a prendere il caffé Claudio?” mi chiede Katia tornando dal primo piano della palazzina aziendale.
Il su e giù dagli uffici dei piani superiori, sia suo che di noi altri tecnici, è routine giornaliera. Fastidiosa, a volte, ma pur sempre necessaria. Accetto. Si alzano quasi contemporaneamente, anche Rocco, Giacomo, Eziana, Michele ed Enzo. Siamo tutti vicini di scrivania. Il solito gruppo, più o meno. Speriamo non ci siano molti altri colleghi alla macchinetta del caffé. Più aumentano gli sguardi, maggiore è la probabilità che qualcuno si accorga di qualcosa. E quindi, che arrivino le prime insidiose domande.
Soprattutto quelle delle colleghe. Quelle che potrebbero avere qualche interesse. Ce ne sono. Ce ne sono sempre quando qualcuno si lascia, diventando di nuovo libero terreno di caccia. Ancor di più poi, se vieni lasciato, come è accaduto a me. Sei lo stesso libero, ma hai bisogno di essere coccolato, consolato, amato. Ti trasformi così in preda e cacciatore, da tutti i punti di vista..
C’è Monica nell’area break, con sua sorella, Riccardo, il marito, Luigi e Francesco, il capo. Sono prima di noi, in ordine di arrivo. Aspettano il loro turno, poco più in là, distanti neppure un paio di metri. Ci salutiamo.
Soprattutto, faccio in modo mi veda Monica.
‘Però, quant’è carina quella ragazza. Ha degli occhi da gatta incredibili, da stare male’commento tra me e me.
Nonostante tutto riesco ad avere pensieri per qualcun altra. Possibile? Ci penso. No, non mi interessa, mi piace parecchio e basta, nulla di più. Mi è sempre piaciuta, ha un fascino e una classe inconfondibili. Del tutto rari, in giro.
“Claudio? Claudio?!
Mhmmm, oggi l’ingegner Mascia è distratto, chissà a cosa sta pensando. O a chi…”
E’ incredibile, le donne hanno un sesto senso.
Katia ha il fiuto dello sbirro. Assomiglia a mia madre, troppo per i miei gusti. Sembra non abbia notato nulla, e invece ha già capito tutto. Mi chiedo come si faccia.
“No… no, stavo solo pensando…”
“Ce ne siamo accorti, Claudio.”
E’ Giacomo, il pragmatico. Non si sbilancia mai, mai più di tanto.
“Pensa a Susan!”
Leo, il solito idiota. Mi sfotte. Tira in ballo il soggetto femminile del mio primo romanzo di fantascienza. Ha cominciato a leggere i primi due capitoli e conosciuto alcuni dei personaggi principali. Da allora, la presa in giro è continua. A me non dispiace, è divertente. Non sono permaloso, neppure adesso. Tra l’altro mi aiuta a sviare i sospetti.
Quelli più seri, di donna. I sospetti di Katia, Eziana e chiunque altra sappia leggere qualcosa in più nei miei occhi, nelle mie espressioni. La sofferenza cieca che prima o poi si vedrà, che saprà come farsi notare. Sorrido, divertito, anche se non sono del tutto sincero. Lo stato d’animo con cui devo fare i conti, ogni singolo istante, non me lo permette sino in fondo.
Continuo a guardare Monica. Di me non si accorge, per niente. O almeno, così sembra. Così dà a vedere.
Scendendo le scale arriva Carlo, collega e avvocato. Anzi, dottore in legge per il momento, visto che non ha ancora superato gli esami di stato per potere esercitare la libera professione. E’ anche un amico, ormai. Per il primo anno, dopo il suo arrivo, abbiamo lavorato nello stesso ufficio, fianco a fianco, al secondo piano. Prima che ci separassero spedendo rispettivamente lui al primo piano, e me al piano terra.
“Mascia, vuoi pagare il caffé?”
Carlo mi chiama per cognome quando c’è gente. O quando vuole darsi un tono per scherzare meglio. E’ un vezzo, ereditato dai tempi del liceo. Prima si usava, e lui se lo porta ancora dietro. Non mi fa né caldo né freddo, a dire il vero.
“Volentieri, devi solo aspettare circa… 15 minuti. Lo vedi che coda c’è.”
“Ehi! Rispettate la fila!” interviene ironica Monica d’improvviso, da dove si trova lei, decentrata. Sembrava distratta sino a un istante fa, presa dai discorsi dei suoi colleghi più vicini, invece, l’orecchio era teso a quello che si stava dicendo dalle mie parti. D’istinto ne sono gratificato, senza un motivo. Non è detto l’abbia fatto per me.
Sa che sono fidanzato, è una ragazza seria. Una di quelle che non va a rompere le scatole a nessuno. Forse è per questo che non parla granché dei fatti suoi. In passato l’ho punzecchiata su alcuni argomenti, per vedere come la pensasse in questioni di cuore, ma è subito diventata un riccio. Furba e scaltra come una volpe. Di sicuro se la tira, e non poco. Comunque, può permetterselo, credo sia anche per questo che mi abbia sempre attratto tanto. Occhi verdi da gatta, a parte. Il dolore mi cresce dentro, all’istante, e non so perché. Penso a Claudia, ma guardo Monica. I suoi capelli neri, come il carbone, contrastano con il colore acceso degli occhi dal taglio orientaleggiante. Mi attrae, eppure soffro da cani. Cerco di darmi coraggio, sforzandomi di fare il simpatico, il ‘brillante’ come dice lei.
Le rispondo con un sorriso forzato, ma sincero.
“Architetto stia tranquilla, qui nessuno ruba il posto a nessuno. Non cadrei mai in simili piccolezze!”
Sorride, divertita, mentre interviene Leo che ci mette il carico da novanta per far sentire la sua presenza.
“Quando fa così vorrei picchiarlo. Monica perdonalo, sta male, molto male, Susan l’ha sconvolto!”
Risata generale, a pieni polmoni, mentre lei continua a sorridere maliziosamente nella mia direzione, guardandomi di sfuggita, ma con interesse. Segue i miei movimenti, i miei gesti, e sebbene abbia già preso il caffè, fa in modo da non allontanarsi e restarmi sufficientemente vicina. Di sicuro le piaccio.
Non posso ancora dire sino a che punto, ma certamente potrei essere il suo tipo. Leo però, non volendo, ha detto una grande verità. Ha soltanto sbagliato soggetto: Susan in realtà si chiama Claudia, la mia Bi. No, solo Bi, ora non è più mia, devo sempre tenerlo bene a mente. E’ vero, mi ha sconvolto, distrutto, confuso i pensieri e massacrato il cuore.
Nel frattempo ci avviciniamo tutti alla macchinetta del caffé.
Riesco a infilare la chiave per primo, così posso offrire a quelli del mio gruppo. Lo faccio sempre, mi piace. Tra tanti difetti, ho qualche pregio: la generosità per esempio.
Monica lo nota, come lo notano tutti, e questo mi basta.
I minuti della pausa trascorrono in fretta, di battuta in battuta, mentre l’angoscia per la solitudine che mi aspetta già al rientro nell’Open Space mi stravolge. Continuerò a pensare a Claudia, e soltanto a lei. Non ce ne sarà più per Monica e per nessun altra. Ho sempre più spesso la stessa sensazione: che il tempo non passi mai, che ogni giornata sia infinita, interminabile. Anche oggi che sono al lavoro. Forse per alcuni versi lavorare non è una distrazione, ma una sofferenza addirittura peggiore dello stare chiuso in camera mia.
La presenza continua dei colleghi, i loro occhi addosso, le attenzioni volute e involontarie che finiscono per asfissiarmi non mi danno pace. Riescono a togliermi il respiro, la libertà di soffrire, di essere me stesso. Di piangere e di gridare che Bi mi manca, mi manca da morire.
Vorrei urlarlo, con quanto fiato ho in corpo, ma non posso.
Le aspettative dei colleghi che mi hanno sempre visto allegro e sorridente, affabile, disposto in ogni momento ad ascoltare le problematiche di tutti, nessuno escluso, a offrire una mano d’aiuto, una parola di conforto, sono le gabbie da cui non riesco a tirarmi fuori. E chissà se mai ne sarò capace. Per il mio bene, per quello di colei che mi vivrà accanto. Domani.
Ma quale domani?
‘Perché l’hai fatto Bi, perché?’
Sono chiuso, stretto in un vicolo cieco, in cui sono rimasto imprigionato senza accorgermene.
Con la maschera dei mille volti che non posso mai gettare. Al lavoro, in famiglia, per la strada, altrimenti la verità viene a galla. Immediata, limpida, imbarazzante. Prende in contropiede, e genera poi interesse, attenzione per la mia storia. Anche se ora non ho più una storia, è proprio questo il problema.
Soltanto Mariagrazia lo sa, per il momento.
Il tempo si è fermato. Non passa, mi dilania. Sono di fronte al portatile e ne deve passare ancora tanto perché questa giornata finisca. Perché le altre, come questa, comincino ad allentare su di me la morsa della sofferenza che galleggia nell’animo lacerato, e mai diminuisce. Mai sparisce.
‘Sino a quando durerà tutto questo?’ mi chiedo.
‘Sino a quando?’
…………………
…………………
Ore 18.30
 
 
ENTER, e il computer si spegne.
Torno a casa e mi chiudo in camera, ma non so per quanto tempo. Ho fame. Dovrei fare palestra, eppure non mi va, non ce la faccio neppure oggi. Domani, forse.
Ceno, il più in fretta possibile, guardando con occhi vuoti e spenti la televisione, poi di nuovo in camera. Per fortuna i miei sono già a letto, a guardare la loro.
Claudia è sempre con me. Mi accompagna ovunque, non mi lascia mai. Nella mia testa però, nella realtà l’ha già fatto da tempo. Mi preparo il letto, e subito dentro, sotto le lenzuola, senza pensare. Costringendo la mente ad abbandonare i pensieri di lei, di noi. Del passato certo, e del futuro che non ci sarà, mai più. Spero almeno che il sonno possa cancellare momentaneamente la coscienza del dolore che cresce.
Sì, che cresce e aumenta. Ancora, sempre, a ogni istante.
Ogni volta che un ricordo fa capolino nella memoria.
Cioè, in continuazione.
Non riesco ad azzerare il passato.
Soprattutto, non credo ci riuscirò.
Né oggi né mai.
 
Buonanotte Claudio.
 
Sì, magari…
 

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