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Anatomia di un incontro

 
 
Ore 17, 36.
Via Roma è un ammasso di corpi in movimento. La gente passeggia, osserva le vetrine, si lascia travolgere dall’onda colorata dei mille desideri che assorbono la luminosità dei riflettori. È primavera inoltrata, il sole macchia di luce bianca l’aria e il cielo che resta immobile nel suo azzurro imperfetto.
Non ho fretta. Mi godo l’euforia di un colloquio che mi ha lasciato dentro la convinzione di avercela fatta. Finalmente. Forse ho azzeccato la tinta del rossetto o la piega dei capelli. Magari il tipo biondo, che sembrava il responsabile del progetto, ha notato il mio sedere. Ho fatto bene a mettermi i jeans attillati. Adesso chiamo Mariella e le racconto… ma, quello, quello là in fondo mi sembra Sandro, sì, è lui. Dio mio, il cuore. Perché mi batte così forte? È passato un anno, non ci pensavo più, no, cosa dico, non è passato giorno che… cosa faccio, guardo una vetrina e faccio finta di non vederlo? Non riesco neppure a respirare. Dai, forza, un bel sorriso, un abbraccio e speriamo che…
«Sandro! Ciao, che sorpresa.»
«Giorgia, che piacere.»
Dio, il suo profumo. Fahrenheit, mi è sempre piaciuto. Quante volte, sentendolo, mi sono guardata attorno sperando di vederlo.
«Fatti guardare, sei bellissima, come sempre, anzi, direi più sensuale. In giro per shopping?»
Ecco, mi gira già la testa.
«Sempre gentile e esagerato. No, ho solo fatto un colloquio di lavoro nei paraggi, sai com’è, di questi tempi.»
«Non mi dire, sono sicuro che andrà per il meglio. Avrai certamente fatto colpo su qualcuno degli esaminatori. Posso offrirti un caffè?»
Sorrido. Sì, mi va di stare un po’ con lui. Mi stringe il braccio ed è come una carezza. Mamma mia, è sempre l’uomo che vorresti incontrare e di cui ti vorresti innamorare. Gli occhi poi, sono sempre di un verde intenso, quel colore che ti fa star male. Dio mio, sono emozionata come una ragazzina.
Ci sediamo a un tavolo appartato del caffè Talmone. Mi fissa. Sorride. Chissà perché mi tornano in mente certe passeggiate al Valentino, una gita al mare e il calore di una cabina che odorava di vernice e di catrame. Poi le sue mani su di me, dentro di me, il vento tra le foglie di un giardino che sa di colori buttati e di pomeriggi pigri di sole e di parole. Vorrei entrare nella sua mente, sapere se mi ha pensata, desiderata, insomma se gli sono mancata. La mia è una ferita che ancora brucia.
Senza una ragione che non sia ingenuo desiderio, la mia mano è stretta alla sua. Forse un gesto istintivo, non so se mio o suo, ma non mi va di lasciarla ed è come stringere il tempo, intrecciare le dita alle pieghe del passato, riprovare il calore di una carezza che è già brivido di pelle, il segno tangibile di un’eccitazione che mi scalda il cuore.
Parliamo di mille cose: di me, di lui, di come ho passato questi mesi, di quello che ha fatto lui, gli amici, i nuovi incontri, l’amore. Ecco, già, l’amore. Ci guardiamo e ridiamo. Ridiamo forte, come allora, con quel piacere che ti spoglia dalle ombre che scuriscono i giorni e ridanno il sapore agrodolce alle amarezze di una mezza contrarietà.
Ho il senso di una specie di malessere che mi chiude lo stomaco. È la stessa sensazione che sentivo ai primi appuntamenti. Sono tentata di alzarmi e andarmene. So che non lo farò. Sono pazza e ho il cuore che non smette di bussarmi dentro. Non l’ho più cercato, ma non ho mai smesso di pensare al suo modo di tenermi stretta, ai baci che mi toglievano il fiato, ma non la voglia di giocare con la sua lingua, al suono della sua voce, al senso delle parole, al gusto di sussurrargli “ti amo, ti amo, ti amo”.
Sento la stretta tra le dita. Mi brucia fissandomi negli occhi. Non riesco neppure a sostenere il suo sguardo. Abbasso la testa e arrossisco per l’emozione che è così forte da portarmi via il senso del giorno. Sto cercando nella mente i motivi di una frattura e non so dove aggrapparmi se non a una cieca rabbia per quello che adesso mi appare come qualcosa di puerile, che non vale sicuramente il prezzo pagato.
Finalmente riesco ad alzare la testa. Lo guardo, poi guardo l’orologio.
«Devo andare. Mi ha fatto piacere vederti.»
Mi alzo dalla sedia. Mi rendo conto di stare per dire qualcosa di cui forse mi pentirò, ma è la cosa che più voglio, che non posso pensare di non avergli detto. Riesco perfino a sorridere mentre dentro sento lo stomaco che si stringe e si rattrappisce.
«Magari una di queste sere ci sentiamo.»
 
 
Ore 17, 27.
La metropolitana ha un fascino particolare. Forse è per via di una tecnologia che ultimamente ha come ubriacato le persone. Probabilmente scendere dieci metri sotto le strade della città, rende tutti più liberi, indipendenti e trasognati. C’è gente che viaggia con gli auricolari costantemente iniettati nel sangue, la bocca collegata e le parole in perenne gestazione. Si vedono solo dita che si muovono su mille tastiere, quasi un gioco delicato e misterioso. Se ti guardi attorno scopri un mondo che fino a ieri nemmeno immaginavi. Le voci si confondono, rimbalzano, raccontano di cose che non conosci: di cene, di amici, di appuntamenti dimenticati. Li guardi e oltre a non capire non riesci a renderti conto con chi hai a che fare.
La stazione di Porta Nuova brulica di gente. Attraverso corso Vittorio Emanuele e mi perdo nella confusione dei portici di piazza Carlo Felice. Noto le stesse vetrine che contornano le colonne del porticato, gli stessi… ma, quella è, sì, è lei, Giorgia. Mamma mia che roba! Ha un modo di camminare che ti lascia senza fiato. Bella da morire.
«Sandro! Ciao, che sorpresa.»
«Giorgia, che piacere.»
Bella era bella ma adesso è stupenda. Starle vicino ha sempre il fascino delle cose che vorresti avere. Me lo dicevano tutti e un po’ mi dispiaceva per via di quel senso di gelosia che ti si appiccica addosso quando ti accorgi di avere accanto una donna dal fascino provocante.
«Fatti guardare, sei bellissima, come sempre, anzi, direi più sensuale. In giro per shopping?»
«Sempre gentile e esagerato. No, ho solo fatto un colloquio di lavoro nei paraggi, sai com’è, di questi tempi.»
Ecco, le solite frasi, gli imbarazzi di rito. E adesso che faccio, le offro un caffè, un gelato. Mi piacerebbe stare un po’ con lei, parlare, guardarla, scoprire se…
«Non mi dire, sono sicuro che andrà per il meglio. Avrai certamente fatto colpo su qualcuno degli esaminatori. Posso offrirti un caffè?»
Mi ha sorriso, accetta. Ho il cuore che impazza. Le stringo il braccio, c’incamminiamo tra la gente e starle accanto, sentirla contro, è un piacere che avevo scordato.
Entriamo al caffè Talmone, ci sediamo a un tavolo d’angolo.
Non riesco a staccare gli occhi dalla sua bocca. L’ho baciata migliaia di volte e altre mille avrei voluto sentire le sue labbra sulle mie. Anche adesso il desiderio è tanto. I ricordi si rincorrono come le immagini di una pellicola che lascia sullo schermo il suo passato. È facile entrare nelle ore di un pomeriggio di festa, la voce di Julio Iglesias nell’aria, il fumo di una sigaretta, la follia di un abbraccio che svuota le voglie di un possesso fatto di cento promesse e baci e carezze e tutti i giochi che l’amore inventa e consuma.
C’è una gran voglia di parlare, di raccontare, di sapere l’uno dell’altra. C’è soprattutto la speranza di rinnovare quello che è stato il magico fluttuare di un sogno fatto di sensazioni, la delicatezza di una carezza, il profumo del glicine sbocciato, l’odore della pelle e quel suo dirmi “ti amo” che ancora mi ripeto in continuazione nella mente. Mi fa male e mi sconvolge.
Ride con gusto e io con lei, quasi l’aver toccato la parola amore avesse prodotto l’antidoto alla paura di entrambi per la presenza di un lui o di una lei che avrebbe spezzato l’incantesimo di un’ora, di un giorno, forse di una vita intera.
Ho la sua mano nella mia e non so chi abbia avuto il coraggio di prendere l’iniziativa. So solo che la stringo e sento la stessa emozione che ho provato la prima volta, quando senza guardarla, ho intrecciato le dita alle sue nel buio di una sala cinematografica.
Vorrei avere il coraggio di dirle quello che sento, quello che provo, quello che il cuore mi ha suggerito mille volte e che mille volte ho trattenuto in gola e non ho saputo buttare fuori. C’è anche tanta sofferenza che mi ha toccato, ma che non oso confessare per quello stupido orgoglio che ha infastidito le notti di un anno intero.
Lei mi guarda, controlla l’ora. Sento che la giornata sta per finire e mi accorgo di provare un senso di angoscia, quasi sentissi il peso di una battaglia persa che avrei potuto combattere in altro modo, forse con un briciolo di passione in più.
«Mi ha fatto piacere vederti.»
Lo dice con una punta di ironia dipinta sulla bocca. Si alza e mi alzo con il cuore che m’impazza dentro.
«Magari una di queste sere ci sentiamo.»
Sorrido e sembra che la sera prenda il colore di una luce che non vuole più morire.

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