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IL RESPIRO DELLE PAROLE

Chissà perché, entrando, ebbe l’impressione di essere osservata, spiata. Si guardò attorno con circospezione, quasi con colpa. La gente però era poca e camminava in silenzio. Nessuno sembrava badare a lei. L’odore dell’aria era quello di sempre. Di catrame, di cemento, di cose impolverate.
Camminò per un po’ godendosi la luce del giorno. Aveva caldo. In testa i mille pensieri sembravano non trovare una loro logicità, si rincorrevano e si aggrovigliavano l’uno sull’altro, fino a confondersi. Eppure questa volta voleva essere lei la protagonista.
Aveva le idee chiare, poteva raccontare le cose come le aveva viste, non come gliele avevano riportate e lo avrebbe fatto con quella libertà di parola che tante volte aveva preteso e… no, adesso, finalmente, sarebbe stata lei a riferire, a far sapere e l’avrebbe fatto con sincerità, discrezione, con il rispetto dovuto, senza offese, minacce o provocazioni. Ci mancherebbe. Quando mai. Era una persona seria lei, mica una linguaccia come la Germana.
Il sole era ancora caldo e settembre si stava consumando tra le foglie dei tigli che avevano perso un po’ di colore e l’intero profumo.
Prima di sistemarsi al suo fianco rimase un momento in piedi, in silenzio, a guardarlo negli occhi. Che belli. Di un azzurro tenue, dell’acqua appena riflessa. Per un attimo corse al di là del tempo, in quel dedalo di immagini forti e colorate, dentro quella macchina parcheggiata ai bordi delle canne di granone maturo, la gonna sollevata, le braccia che la stringevano, la bocca contro senza respiro e il calore di quello sguardo che la stordiva più di qualunque carezza.
«Ciao Aldo… sì, non ti stancare a fare gesti con le mani, lo so che non puoi parlare. Le tue corde vocali chissà dove sono finite dopo il volo oltre il fosso e quella rete di ferro che per poco non ti decapitava. Tu e quella maledetta ostinazione di andare alla bocciofila in motocicletta. Gli occhi però, me lo ricordo sai, sono sempre uguali. Dolci, attraenti. Come allora.»
Aveva appoggiato la borsa e si era seduta al suo fianco. Quasi con fatica, per via dell’età che cominciava a farsi sentire. Si massaggiò un poco il fianco sinistro, sopra al rene.
«Oddio, la schiena, continua a farmi male. Dovrò farmi prescrivere un’altra serie di infiltrazioni. L’ultima volta sono stata bene per parecchi mesi, ricordi? Ah, questa mattina è venuto a trovarmi l’Alberto. Poverino, si è seduto sulla sedia impagliata accanto alla credenza. Mentre preparavo un caffè l’ho guardato. Era pallido, dimagrito, la barba di tre giorni, i pantaloni macchiati. Ho paura che… la Marisa mi ha detto che si è messo a bere. Certo che per uno come lui, solo, triste, abituato a parlargli, a portarselo in giro, a conviverci, quel cane rappresentava davvero tutto.»
Una signora con una strana borsa a forma di sacco si era fermata e si guardava attorno. Aveva dato un leggero colpo di tosse, come a richiamare l’attenzione. Sembrava spaesata.
«Mi scusi, per caso sa mica dirmi se il signor Amilcare Prunotto è stato…»
«Più avanti signora, deve chiedere più avanti.»
La signora aveva spalancato gli occhi, le aveva rivolto un mezzo sorriso di ringraziamento e si era allontanata zoppicando, agitando la testa da una parte all’altra come per scacciare una mosca.
«E non guardarmi così, che ne so io del signor Prunotto. Invece sta a sentire. Vuoi bere? Oggi fa più caldo di ieri, sarà l’umidità. Allora, dicevo, sai Consuelo, la moglie del povero Arturo che si è buttato dal balcone per via di quella storia che ancora gira in paese su una tresca che lei aveva con il dottor Trimaggio. Non strabuzzare gli occhi, in paese lo sapevano tutti, figurati, ne abbiamo parlato un mucchio di volte. Sì, d’accordo, lo si pensava, lo si diceva, non c’erano prove ma era evidente, dai. Certe cose non si riescono a nascondere, quelle poi… ebbene, non ci crederai ma ieri sera, mentre rincasavo da una visita alla Fiorenza, saranno state le ventidue, minuto più minuto meno, passo per la via delle Saponaie e chi ti vedo uscire dal portone del Trimaggio? Già, proprio lei, Consuelo. E che ci faceva la signora tutto culo a casa del dottor Trimaggio alle dieci di sera? Dimmelo, dimmelo… sì, lo so, tanto non avresti detto nulla anche se avessi potuto parlare. E non fare quella faccia, sempre quella, come a dire: ma cosa dici, figurati se il Trimaggio, persona stimata, di prestigio e di cultura, si mette con quella. Ma non scherziamo. Già, perché tu con quella avresti detto il rosario. Neppure un bacio, una carezza… ma fammi il piacere. Ecco, lo sapevo che finiva così. Con te non posso mai avere la soddisfazione di saperti d’accordo. Almeno una volta, una sola. Macché. Mai. Senti, è meglio che me ne vada. Si è fatto tardi e devo ancora passare al supermercato. Magari torno domani.»
Il bacio era stato frettoloso, di quelli che si danno per far capire che non è aria. Tanto a lui che gli frega, pensò la donna affrettando il passo.
Fuori sembrò che spirasse un vento leggero, muoveva le foglie degli alberi allineati ma non le nuvole. Guardò in alto, quasi a inseguire il volo di un uccello, sorrise e si lasciò il cimitero alle spalle.

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