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Nero d'Africa

 
Gianfri me la presentò una sera di metà luglio. Stavo seguendo una partita di biliardo che prometteva spettacolo. Lui entrò nel bar con la sua andatura un po’ sbilenca, il mozzicone di sigaretta spento tra le dita, l’aria greve di chi si è appena alzato o di quell’altro, quello che a letto proprio non c’è andato.
Salutò con un gesto della mano e un sorriso che avrebbe potuto essere scambiato per una smorfia di disgusto. Mi si avvicinò.
«Ho bisogno di un favore.»
Lo guardai divertito. Indossava una t-shirt rosa e un paio di pantaloni di un colore sbiadito, molto simile ai cachi ancora appesi ai rami.
«Sono già preoccupato, ma sai che ho un debole per te.»
Una piega delle labbra ancora più eloquente, quasi il segno di un imprevedibile stupore.
«Potresti venire fuori un momento?»
«Allora la cosa comincia a puzzare.»
Uscimmo dal bar. Lui prese a camminare lungo il marciapiede, svoltò l’angolo della via, percorse una decina di metri, scese dal marciapiede e si fermò davanti a una Punto bianca, probabilmente del ’95.
Seduta sul sedile del passeggero una ragazza di colore. Avrà avuto venti, forse ventidue anni. Difficile dire. Capelli corti, ricci, occhi grandi e neri, labbra gonfie. La pelle del viso era liscia, senza ombra di cicatrici o tatuaggi di rito tribale.
La guardai e le sorrisi.
«Lei si chiama Halimah, è nigeriana. Credo di una tribù Hausa. È arrivata ieri sera dalla Spagna. Sto aspettando una risposta da uno che provvede a sistemarle…»
«Sul marciapiede?»
«No, scherzi? È a capo di un’organizzazione che le ospita e assicura loro una sistemazione regolare.»
«E io che c’entro?»
«Devo trovarle un letto per questa notte. Fino a domattina non posso fare nulla. Lo sai bene anche tu che io non ho possibilità di ospitarla. Mia madre è anziana, sofferente, non sopporta neanche me, figuriamoci una ragazza. Per di più nera.»
«Quindi dovrei ospitarla io.»
«Solo per questa notte. Domani mattina la vengo a prendere e la porto all’associazione.»
Guardai lui, lei, poi di nuovo lui.
«Non obbligarmi a fare cose di cui potrei pentirmi.»
«Non scherzo mai su queste cose e tu lo sai.»
«Capisce l’italiano?»
«Poco. Un po’ di spagnolo, nient’altro.»
Feci il giro della macchina, aprii la portiera e la feci scendere. Era poco più piccola di me ma quello che vidi al di sotto del viso bastò a stordirmi.
Lui si era acceso il mozzicone di sigaretta che gli era rimasto appiccicato tra le dita. Mi guardava con la sua espressione stanca e indifferente, ma non disse altro. La piega delle labbra era fin troppo significativa. Chissà, forse ci sarebbe scappata una storia da raccontare.
Alzai la testa, lo salutai. Presi il borsone che lei faticava a tenere sollevato e mi avviai verso la macchina posteggiata un centinaio di metri più avanti. Lei mi seguì. Camminava tenendosi a distanza, un metro dietro, non so se per timidezza o per paura.
Guidavo e cercavo di spiare le sue reazioni. Lei fissava la strada, le case, la gente. Biascicai anche qualche parola che probabilmente lei non capì perché non mi rispose.
Il vano dell’ascensore era piccolo. Lei si era schiacciata in un angolo e mi guardava con un’espressione strana, di curiosità e di rispetto.
 
 
Le avevo offerto un caffè. Avevo cambiato le lenzuola, l’avevo salutata e mi ero sistemato sul divano del soggiorno.
Il televisore era acceso. Sul primo canale trasmettevano una partita di calcio. Giocava la nazionale. Io guardavo lo schermo e pensavo a tutt’altro. Pensavo a lei. Rivedevo quel corpo che usciva dalla Punto di Gianfri e graffiava l’aria attorno tanto era bello. Ricordavo perfino la leggera macchia di sudore che scuriva il cotone della polo sotto le ascelle e il segno dei capezzoli, la pelle delle gambe, il colore dell’ebano.
Mi parve di sentire il procedere attutito di una camminata scalza. Voltai la testa. Lei si era spogliata. Adesso era nuda e mi guardava appoggiata allo stipite della porta della camera da letto. Sorrideva e mi tendeva la mano.
Non sapevo cosa fare e non smettevo di guardarla. Dio, quant’era bella. L’invito non dava adito a molte interpretazioni. Mi sentivo perso. Stimolato e timoroso. Poi mi alzai e mi avvicinai. Lei mi prese la mano e mi condusse in bagno.
La vasca era già colma a metà di acqua tiepida. Lei scavalcò il bordo, prese la spugna appoggiata sul piano, mi guardò, sorrise e me la porse. Io strinsi la spugna nella mano, lei si appoggiò al mio braccio, si chinò, allungò le gambe e s’immerse nell’acqua fino al collo.
C’era qualcosa di strano in tutto questo fare, forse qualcosa di studiato, di ripetuto decine di volte. Qualcosa di cui lei si era già servita per far quadrare i conti. I suoi e di sicuro quelli di qualcun altro. Eppure la sensazione era quella di un gesto pulito, una specie di ringraziamento per l’ospitalità che le stavo offrendo. Cos’altro se no, potevo essere suo padre, anzi, suo nonno.
Il mio imbarazzo era palpabile e aveva l’effetto di un’emozione che mi stava soffocando. Avevo timore di perdermi nell’incontrollabile illusione di una chimera, il sogno impossibile di una malia senza fine.
Trangugiai la saliva più volte. Il contatto con la sua pelle mi procurò un brivido. Le passai la spugna e poi la mano insaponata su tutto il corpo. La lavai e nel lavarla continuai a guardarla e ad accarezzarla. Più volte la mano si soffermava tra le sue cosce, mi procurava la dolcezza di mille nostalgie. Lei teneva gli occhi chiusi, un po’ li socchiudeva e allora il respiro si appesantiva e la sua mano premeva sulla mia.
Nessuno dei due ebbe mai modo di parlare. Poi lei fece un sospiro più lungo, mi fissò, sorrise e si alzò. Io presi il telo che le avevo lasciato appoggiato sulla lavatrice e lei si girò. Non so quanto rimasi ad ammirare il suo corpo, non so neppure come feci ad asciugarla senza abbracciarla, toccarla, premerle le labbra contro.
Quando mi sdraiai sul divano la partita era finita. Rimasi prigioniero di un dormiveglia nervoso. La notte sembrava non aver fine. Dalla strada arrivavano i rumori di un traffico stanco e mille pensieri si raggruppavano attorno al corpo di lei, m’inquietavano e mi eccitavano.
 
 
Nella piccola cabina dell’ascensore lei mi guardava senza paura. Pareva quasi che i suoi occhi mi scaldassero.
Lui, Gianfri, era già sulla strada che aspettava. Il gomito fuori dal finestrino abbassato, la sigaretta in bocca, i capelli lunghi e arruffati.
«Ti ha dato problemi?»
«Figuriamoci.»
Lei aveva sistemato il borsone sul sedile posteriore. Mi aveva guardato ed era sparita all’interno della Punto. Lui aveva alzato la mano in segno di saluto e girato la chiave. Il motore aveva dato un lieve singulto e si era messo in moto. Halimah aveva urlato qualcosa, poi aveva avuto uno scatto, era scesa, aveva attraversato la via di corsa e mi aveva abbracciato.
Ricordo che dovetti aspettare che la macchina sparisse in fondo alla via, prima di asciugarmi gli occhi con il dorso della mano.

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