Scritto da © Piero Lo Iacono - Sab, 22/01/2011 - 19:53
Ti sostengo al mutamento
quando l’ammanco più pronubo
sanguina dell’assenza.
Ci allaga un’insonnia di luna piena.
E divengo golfo fermo frugato dai fari,
ininterrotto fiume inverso che risale.
E amo i cipressi dai profili gotici.
Le fiamme dei papaveri
dove mi brucio come all’inferno
negoziando vita e morte.
Sono di quella razza di pecore
che non sopportano
la lana, neanche d’inverno.
La rosa ama le sue spine.
I ricci i loro aculei.
I loti del Nilo il loro limo.
Mio padre non c’è mai nei miei sogni.
E io continuo a perdere il treno.
Il prossimo è alle 6.
Ma non ho orologio.
Nessuno mi dice l’ora esatta. Mai.
Così attendo tutti i treni senza poter partire.
E mi metto a leggere i volti dei viaggiatori
e dei vetturali.
Puoi far male con le tue domande
perché sverzi il segreto
e spacchi sigilli a colpi di nerbo
da riottosi tamburi di costole
e denti ad una mandibola
che ha perduto il teschio.
Cosa ci risparmia il parlare?
Il vantaggio del non-fare?
Oltre il recidivo trasformare
la paratassi in sintassi.
I soliti benché in perché.
“Prendi questa rosa -mi dicesti-
e torna solo quando sarà appassita”.
Ma come propiziarsi gli dei?
Come? Noi uomini contro?
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