Un giorno all'improvviso (Cap. 1) | Prosa e racconti | Claudio | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Un giorno all'improvviso (Cap. 1)

I
 
 
 
La famiglia in cui sono nato non poteva certo dirsi delle più agiate. Mia madre era un’operaia del manifatturiero di Lecce, mio padre invece, un sarto, troppo timido e cagionevole di salute per mandare avanti una famiglia così numerosa: sette figli, quattro femmine e tre maschi, di cui io, Roberto Sastri, il più giovane. Dopo la seconda guerra mondiale il lavoro poco e mal pagato di mia madre, unito a quello saltuario e ancora peggio pagato di mio padre, aveva spinto entrambi a emigrare in Francia. All’epoca non avevo ancora compiuto dieci anni, ma la cosa si rivelò con il tempo l’unico dono che il destino avesse mai deciso di farmi, visto che trasferendomi a quell’età riuscii a mantenere la conoscenza dell’italiano – nonostante a Lecce avessi fatto non più del quinto anno, mai finito, di scuola elementare –, e a imparare rapidamente e alla perfezione la lingua d’oltralpe.
Quando all’età di 13 anni cominciai a lavorare come garzone in un bar del quartiere di Rochechouart, di proprietà d’un emigrante italiano, le due lingue furono il mio asso nella manica. Poter riuscire a gestire clienti italiani e francesi senza rischiare di fare confusione mi dava una marcia in più, oltre a consentirmi di guadagnare molti spiccioli con le laute mance di coloro che si sedevano ai tavoli che ero solito servire. Il signor Arturo, da cui il nome del bar presso il quale lavoravo, mi aveva preso subito in simpatia, dal primo giorno. Un po’ per il fatto che fossi italiano, e pugliese come sua madre, un po’ per via del mio sapermi mostrare sempre sveglio quando si trattava di passare la comanda al bancone, o magari di fare qualcosa che esulasse dalla semplice routine. Avevo 13 anni, è vero, ma per quello e soprattutto per il ‘come’ lo facevo, ne dimostravo e me ne sentivo addosso almeno dieci in più. Il signor Arturo lo ripeteva di continuo: Robi diceva guardandomi con soddisfazione negli occhi, tu farai strada, figlio mio. Sei nato sotto una buona stella, e per questo andrai lontano, vedrai!
Peccato che il signor Arturo si sia sempre dimenticato di aggiungere, uno, quale fosse il nome di questa buona stella, che ho disperatamente cercato per decenni, tra un disastro e l’altro, due, di specificare la direzione che avrei dovuto prendere per andare lontano. A ogni modo, ascoltavo soddisfatto le sue previsioni sul mio futuro, e spesso fantasticavo su come in età adulta sarei riuscito ad aprire un bar tutto mio nel quale avrei dato anch’io la possibilità di lavorare ad un altro figlio di emigrante italiano. Di emigranti del mio paese, nel mondo, pensavo, ce ne saranno sempre, e questa di fatto è stata l’unica cosa che abbia mai azzeccato in vita via. Con i soldi che guadagnavo dal bar del signor Arturo, aiutavo innanzitutto economicamente mia madre, rimasta nel frattempo vedova circa un anno dopo esserci trasferiti a Parigi, e in più riuscivo a mettere pochi ma importanti spiccioli da parte per far fronte alle esigenze da ragazzino di 13 anni: caramelle, cioccolate, e sigarette.
Già, proprio così, sigarette.
Ho imparato a fumare la mia prima sigaretta all’età di 12 anni e mezzo, in un pomeriggio d’estate.  
Francois, il garzone più grande che lavorava con me dal signor Arturo, e al quale ero molto legato, amava fumare sempre una sigaretta dopo aver staccato dal lavoro, nel tardo pomeriggio. Diceva che lo rilassava, e io gli restavo vicino mentre fumava, nonostante la puzza emanata da quel cilindretto di carta bianca che si consumava non mi entusiasmasse granché. Consideravo Francois il fratello maggiore che non avevo mai avuto, visto che i miei due fratelli di sangue avevano così tanta differenza d’età con me – sette e dieci anni rispettivamente – che li avevo sempre visti più come padri che come altro.
Quel pomeriggio Francois aveva appena acceso la sua sigaretta, quando non so per quale motivo, dopo sole due boccate, decise che ne avrebbe fatto a meno. Era sul punto di buttarla, schiacciandola come al solito sotto la scarpa, quando incrociò il mio sguardo sorpreso. Si fermò, mi guardò negli occhi con espressione incuriosita, e mi chiese se avessi voluto provare. La sola proposta mi fece sentire più grande di 15 anni, e così accettai. Il primo tiro, lo ammetto, fu disastroso; il secondo meno, il terzo mi fece capire in breve che da quel momento in avanti non avrei più smesso. Mia madre, ovviamente, avrebbe dovuto continuare a ignorare la mia nuova abitudine.
Decisi quindi, di nascondere il mio pacchetto di sigarette, ogni volta puntualmente procurato da Francois a un prezzo più che scontato – con gli anni avrei capito anche il perché di quel lauto sconto – sotto una vecchia mattonella nel sottoscala del bar dove il signor Arturo usava stoccare le merci.
Era il 1968, avevo 13 anni ed ero un ragazzino, ma lavoravo sodo persino dodici ore al giorno se serviva, aiutavo mia madre ad avere un’esistenza dignitosa in un paese che non era il nostro, e in più fumavo. Sì fumavo, anche se di nascosto.
E tutto questo, faceva di me già un uomo.
 
 
 

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