Un giorno all'improvviso (Cap. 2) | Prosa e racconti | Claudio | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Un giorno all'improvviso (Cap. 2)

II
 
 
 
A diciotto anni, solo pochi giorni dopo essere diventato maggiorenne, decisi di convolare a giuste nozze con Hellen, la mia prima fidanzata.
Mhumm… no, non andarono proprio così le cose.
In realtà, non fui io a decidere di sposarmi, non l’avrei fatto neppure sotto tortura. Fu invece, un’imposizione neppure tanto velata di mia madre, sconvolta dal fatto che fossi riuscito a mettere incinta la mia prima ragazza francese dopo appena due mesi averla conosciuta. Un bel guaio insomma, soprattutto considerando il fatto che a malapena riuscivo a campare me stesso con i soldi che guadagnavo. Col tempo, però, mi sarei reso conto che non ero in realtà io a mettermi nei pasticci, bensì loro a venirmi a cercare con sistematica regolarità. E più cercavo d’imboscarmi, più loro riuscivano a scovarmi. Sembrava sapessero sempre alla perfezione dove fossi.
Comunque, per i primi tempi dopo la notizia dello stato interessante di Hellen, continuai a lavorare nel bar del signor Arturo, dove ero ormai divenuto un veterano, oltre che una specie di istruttore giovani reclute-camerieri. Specie poi se emigranti.
Ero ben voluto da tutti e il lavoro mi piaceva molto, anche perchè con il passare del tempo e l’esperienza accumulata nei cinque anni di dura gavetta, ero arrivato a essere una specie di factotum. In pratica, io tiravo avanti la baracca e il signor Arturo ne godeva i frutti. La paga, in tutta onestà, non era male per uno che a malapena aveva fatto un anno di scuola pubblica francese, e che soprattutto non aveva altro tipo di esperienza lavorativa. Era piuttosto l’assenza di prospettive che mi creava qualche insicurezza.
Mhumm… ok, neppure questo era proprio vero. Quella che non vedeva prospettive nel mio lavoro era Hellen, non certo io, dato che a malapena all’epoca conoscevo il significato della parola “prospettive”. A lei non era mai andato giù che facessi il cameriere in un bar, era questa la verità. Sosteneva che il signor Arturo mi sfruttasse con la scusa di considerarmi uno della famiglia, e devo ammettere, con il senno di poi, che Hellen non avesse poi tutti i torti.
Ma a quel tempo, poco più che diciottenne, non sapevo davvero cos’altro fare, quindi anche solo il pensiero di darmi a un mestiere diverso da quello che conoscevo ormai bene continuò a non allettarmi granché. Almeno sino a quando non nacque André. Già una settimana dopo il suo arrivo infatti, le pressanti richieste di Hellen ebbero la meglio sul mio carattere sempre molto accomodante e tranquillo. Diciamo pure, remissivo. Il signor Arturo non prese bene la mia decisione di licenziarmi, e Francois, se per questo, ancora meno. Per farmi pesare ancor di più quella scelta secondo lui insensata, decise finalmente di rivelarmi il perché le sigarette che compravo da lui costassero sempre così poco.
Il motivo, in effetti, era assai più semplice di quanto avessi mai potuto immaginare, e forse solo un ingenuo come me non l’avrebbe mai intuito: quelle sigarette non erano fatte di tabacco puro perché il loro contenuto veniva ‘tagliato’ con altre erbe, non nocive né stupefacenti per fortuna, ma che di sicuro non costavano un granché. La pianta che andava per la maggiore in quel miscuglio di pseudo tabacco confezionato per i pacchetti destinati alla vendita a fessacchiotti come me, era la camomilla. Sì, esattamente, la camomilla. Per giunta, di terza o quarta scelta. In pratica, lo scarto dello scarto.
Ora mi spiegavo perché, nonostante tutto, dopo un paio di sigarette cominciassi puntualmente a sbadigliare. Addebitavo il tutto alla stanchezza della giornata lavorativa, ma a pensarci bene neppure l’odore del fumo di quelle sigarette era forte e convincente quanto quello delle sigarette di Francois. Il quale, quando ogni tanto capitava gliene offrissi una, si guardava sempre bene dall’accettare. Il furbastro…
Continuai comunque, nonostante tutto, a frequentare il bar e tutti i miei ex colleghi. Erano stati in parte la mia famiglia negli anni più difficili dopo il trasferimento dall’Italia, quindi proprio non mi riusciva di troncare del tutto con nessuno di loro.
Anzi, con il passare del tempo, e all’insaputa di Hellen, ovviamente, il fatto che non fossi più un dipendente del bar migliorò ulteriormente la qualità dei nostri rapporti. Il signor Arturo comprese come dietro la mia grande e importante decisione ci fosse… mia moglie, e Francois smise di vendermi quelle pseudo sigarette che diversamente non sarebbe riuscito a piazzare a nessun altro. E a nessun prezzo, soprattutto. Grazie al padre di Hellen, trovai un lavoro in una grande fabbrica di pneumatici. Lì l’atmosfera era molto diversa da quella del bar in cui ero cresciuto, e credo fu quella, innanzitutto, la maggiore responsabile del fallimento del mio matrimonio. Hellen cominciò a sentirsi più sicura della nostra condizione economica, adesso che ero operaio e dipendente di un’azienda solida e rinomata, anche all’estero, io invece, iniziai a sentirmi sempre meno libero e sempre più triste, rabbioso e frustrato. Da essere un ragazzo pieno di vita, quasi impossibile da stancare, divenni in poche settimane sempre più chiuso, introverso, burbero e scostante, con tutto e con tutti. Tranne che con André, che era l’unica vera gioia della mia vita, con mia madre e con gli amici del bar ai quali non smettevo di confidare, nel week end, il mio senso di frustrazione e solitudine. Durante la settimana invece, non vedevo l’ora di staccare in fabbrica per tornare da mio figlio e stargli vicino il più possibile. Almeno sino a che la stanchezza massacrante della giornata lavorativa non finiva per farmi collassare sul divano, in un profondo sonno disturbato da sogni sgradevoli e incubi d’ogni tipo, mentre il piccolo Andrè, ancora tra le mie braccia, continuava a sorridermi e chiamarmi a modo suo. Più i giorni, e i mesi, passavano, più non sopportavo Hellen. Lei era divenuto il male di tutti i mali. Mi aveva dato una nuova vita partorendo il frutto del nostro amore – o sarebbe meglio dire, lo sbaglio di una notte - ma mi stava anche togliendo, indirettamente, la linfa vitale donatami da mia madre. Non passava giorno che non mi ripetessi che non avrei mai dovuto ascoltarla, facendomi costringere a lasciare il bar del signor Arturo, ma ogni volta il pensiero di Andrè riusciva a farmi andare avanti. Almeno sino a quando, un mio collega, compagno di linea sulla quale lavoravamo entrambi, durante una pausa sigaretta verso la metà del turno, non mi offrì la prima canna della mia vita. Erano gli anni delle ribellioni giovanili, a poca distanza dal movimento del 1968 che aveva cambiato il volto all’Europa, nel bene e nel male, e fumare cannabis, o hashish, o qualunque altra droga leggera che aiutasse a estraniarsi dalla cosiddetta ‘realtà dei padroni’, non era poi così difficile, anzi. Fu un’esperienza forte e unica, soprattutto per uno ingenuo e semplice come me, ma fu anche l’inizio della fine del mio matrimonio con Hellen. Lei mi aveva costretto alla vita di fabbrica, e ora, quella stessa vita di fabbrica ci avrebbe allontanati per sempre.
 

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