Un giorno all'improvviso (Cap. 6) | Prosa e racconti | Claudio | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Un giorno all'improvviso (Cap. 6)

                                                                       VI
 
  
Conoscendo Hellen mi sarei dovuto aspettare che nei miei quindici anni e passa d’assenza, prima o poi avrebbe finito per preoccuparsi di cambiar casa. La sua natura di donna frustrata alla continua ricerca di conferme, in ambienti sempre più esclusivi, non avrebbe potuto suggerirle una strada differente.
Ora, quale che fosse la ragione, l’unico problema per me restava quello di capire in fretta dove fosse andata a finire con mio figlio Andrè. I vicini della vecchia abitazione, che nel frattempo erano cambiati o si erano trasferiti altrove, non furono in grado di fornirmi indicazioni utili. A malincuore, nonostante l’impegno profuso andando di pianerottolo in pianerottolo, e tutti gli sforzi fatti per cercare di ritrovare il minimo indizio in grado di aiutarmi, dopo due giorni interi di domande e quasi nessuna risposta, non riuscii a cavarne un ragno dal buco.
Arrivando solo a dedurre che il cambio di residenza di Hellen e Andrè doveva in realtà essere avvenuto parecchi anni prima del mio ritorno. Decisi allora di cercare informazioni più specifiche prima a casa dei suoi genitori, e poi di alcuni cari amici di famiglia. Ben presto mi resi conto che nei miei quindici anni di assenza da Parigi tante cose erano cambiate. E ahimé, quasi mai in meglio. I genitori di Hellen erano entrambi deceduti - cosa questa che faceva parte di quel meglio di cui dicevo prima - e forse la loro scomparsa poteva essere stato uno dei motivi principali per il quale lei aveva deciso di cambiare abitazione, spostandosi dal quartiere nel quale era cresciuta e aveva vissuto per tanti anni. Degli amici di famiglia di cui ricordavo ancora nomi e indirizzi invece, nessuno, ma proprio nessuno era più dove avrebbe dovuto. Alcuni si erano trasferiti, a loro volta, altri erano morti o risultavano irrintracciabili per le più disparate ragioni. Sembrava che tutti, ma proprio tutti quelli che ci avevano conosciuto, si fossero messi d’accordo per rendermi impossibile l’opera di ritrovamento della mia ex famiglia. Ero in poche parole tornato al punto di partenza, annaspando a meno di tre giorni dal mio rientro, nel buio più completo. Ma soprattutto, non sapendo da dove ricominciare, per l’ennesima volta, per rintracciarla. Capendo che la situazione contingente aveva ormai preso una piega molto particolare, e che soprattutto i tempi di conclusione delle ricerche si sarebbero rivelati più lunghi del previsto, decisi di affittare un piccolo appartamento nel quartiere storico di Montmatre: il quartiere degli artisti che tanto avevo amato da ragazzino. Lì, all’insaputa dei miei genitori prima, e di mia madre dopo, una volta che mio padre morì, avevo trascorso interi pomeriggi prima di rientrare a casa dopo il lavoro come garzone. Ricordavo ancora tutto di quelle case, di quei giardini, di quelle strade. Nessun odore o sapore mi era del tutto estraneo, o sconosciuto. In ogni cosa v’era traccia del mio passato ormai lontano eppure così vicino, al punto che la memoria non faceva fatica a decifrarlo, dandogli un nome o un’immagine. All’ennesimo tentativo di ricerca fallito, decisi di concedermi una piccola pausa, recandomi al bar del signor Arturo per salutarlo e fargli sapere che non l’avevo mai dimenticato in tutti quegli anni di lontananza. Ma anche il bar, la seconda casa della mia adolescenza, mi avrebbe riservato un’amara sorpresa. Venni infatti a sapere da un vecchio signore che ancora stazionava giornalmente da quelle parti, che il signor Arturo era morto sette anni prima a causa di una leucemia fulminante. Il bar era stato allora rilevato dal mio amico Francois, il quale però, essendosi invischiato in giri strani e pericolosi della malavita locale, aveva cominciato a trasformarlo in un luogo poco raccomandabile; ritrovo, soprattutto alla sera, di prostitute e disperati d’ogni tipo. Quello che era stato la mia palestra di vita e di lavoro si era trasformato nell’arco di qualche mese in un luogo di perdizione e tristezza. Sino a quando, circa due anni dopo che Francois ne aveva rilevato la gestione, una brutta sparatoria durante la quale lui era stato freddato con due colpi di pistola alla nuca, aveva messo fine per sempre al bar e alla sua clientela poco onesta e consigliabile. Lo stesso anziano signore che mi aveva raccontato tutta quanta la storia, sorseggiando un caffé lungo in un bar a pochi isolati da dove si trovava quello ormai chiuso del signor Arturo, stava ancora lì, ogni mattina, con la sua solita sedia, ad aspettare che qualcuno riuscisse a restituire quel piccolo e storico esercizio commerciale alla comunità del quartiere di Rochechouart. La dedizione e l’attaccamento di quel vecchietto a qualcosa che non c’era più, ma che nonostante tutto avrebbe ancora potuto essere se solo qualcuno ci avesse creduto per l’ennesima volta, mi fece pensare. E non poco. Tornai nel mio appartamento a rimuginare, mentre mi ordinavo una pizza al cui sapore immaginavo che il mio palato non fosse più abituato. Terminai la mia cena in compagnia della fedele compagna dei tanti anni di guerra.
L’unica forse dalla quale non mi ero mai separato, neppure per un giorno solo: la mia cara, vecchia pipa. Proprio lei, insieme ad alcuni tiri dell’altra amica nemica del periodo nella Legione Straniera, la cocaina, mi aiutò a concludere che Hellen e Andrè avevano aspettato quindici anni per rivedermi e ora dunque, avrebbero atteso ancora qualche tempo - settimane, mesi forse - per rivedermi.
In fondo, quel poco tempo in più non avrebbe di fatto cambiato nulla. Anzi, forse, avrebbe addirittura potuto rivelarsi vantaggioso e proficuo, dato che riuscendo a riaprire il bar del caro signor Arturo sarei stato in grado di dimostrare quanto ancora fossi capace nel settore del commercio. Il pensiero di Hellen e di Andrè continuò a restare la mia preoccupazione più grande, ma cominciai a sentire forte, dentro di me, come ai tempi della mia adolescenza, l’irrefrenabile desiderio di mettere in atto il proposito che avevo sempre avuto: gestire un bar tutto mio. Non uno qualsiasi, bensì quello che era appartenuto a colui che mi aveva aiutato a diventare uomo. Qualunque fosse stato il prezzo da pagare in termini di tempo e di soldi per ridare vita a quel bar, ero convinto sarei stato in grado di rimetterlo nelle condizioni di funzionare al meglio, il prima possibile, facendolo tornare in poco tempo al suo vecchio splendore.
Come ex combattente della Legione Straniera l’iter burocratico propedeutico alla riapertura dell’esercizio, si rivelò assai più veloce e indolore di quanto avessi immaginato. Sembrava che i funzionari dell’ufficio tecnico del comune avessero atteso con ansia il mio ritorno vista la loro sollecitudine nel rilasciarmi tutte le autorizzazioni necessarie e richieste. Questa rapidità mi permise di sbrigare la pratica ‘riapertura’ in poche settimane. Non ero per il momento riuscito a ritrovare mio figlio Andrè, ma ero stato in grado di riappropriarmi d’una parte del mio passato cui sentivo di dover restituire dignità e orgoglio. Nel rispetto della memoria del caro signor Arturo, e di quanti come me avevano sempre visto in quel bar ben più che un semplice posto dove sorseggiare un buon caffé ristretto all’italiana.
 
 
 

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