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Il ritorno

Allorché tornai dalla prima guerra, dopo anni di combattimento e prigionia, ricordo che quando la gente mi rivedeva, mi salutava molto calorosamente contenta di ritrovarmi vivo, e mi diceva:- Però ti ritrovo bene sai…- Come se quei combattimenti, quelle privazioni e quella prigionia non fossero transitate sul mio corpo saggiandolo in ogni sua parte. Anche allora avevo visto dei morti, centinaia di morti. Non importa la loro nazionalità o che divisa indossassero, i morti son tutti uguali, non han razza o colore. Ricordo i loro occhi trafitti dallo stupore della fine, fra di essi molti giovani forse con i loro sogni infranti, le loro speranze spezzate, i  loro corpi sacrificati all’umana assurdità.
Anche allora, nell’attraversare l’Europa, avevo visto paesi devastati, case in un indistinto ammasso di macerie dalle quali spuntavano ricordi di vita vissuta come una bambolina, un trenino, un mestolo, un cappello…
                            Questa seconda guerra, però, è stata diversa. Dopo anni di combattimento sto tornando or ora, ma par come se non me ne fossi mai andato: la gente mi passa davanti senza neanche salutarmi, come se il mio corpo fosse stato modificato e come se i miei patimenti lo avessero reso invisibile.
 
Anche ora ho visto tanti morti, ma, peggio ancora, ho visto i sopravvissuti, la cui mente è crollata insieme alle loro case, nelle macerie delle quali cercano il tempo di una volta e le loro identità perdute.
Ora mi aggiro in quel che era la mia città cercando di riconoscere la via dove dovrebbe essere la mia casa, ma ogni angolo è un ammasso di pietre, un contorcersi di ferro, una spiaggia di polvere. Vedo passare da lontano un mio cugino: è Maurizio. Cammina con la sua andatura dinoccolata, ma non ha più il solito beffardo sorriso sul volto. E’ assente…distratto. Lo chiamo a gran voce, ma improvvisamente mi accorgo che non emetto suono. E’ come se stessi sognando, ma sono sveglio. Tutto è come se fosse ovattato, come se i rumori, sovrastati da quelli delle bombe e delle mitraglie si fossero smorzati nella paura della gente.
                            Un can randagio dal pelo fulvo mi si para davanti e scodinzola. Sembra essere l’unico a vedermi. E’ sporco, malandato, rognoso e, quando proseguo per la mia strada, mi segue.  Forse aspetta che gli dia qualco-                                                                   -sa da mangiare, ma non ho nulla, ho dimenticato  cosa vuol dire mangiare. Ho dimenticato i sapori del cibo, il suo profumo, i suoi colori. E non solo; ho dimenticato il calore dell’amicizia, il conforto del focolare   domestico,  l’emozione
dell’amore. L’amore…tra questa distruzione  è  vana parola,è ironica, è un grido taciuto, è un silenzio…
                            Giungo in un punto che conoscevo bene: un locale con un’insegna che suscitava in me grande ilarità per un errore che conteneva: “Sala bigliardi”. Aveva, cioè, una “G” di troppo. Nel guardarla ora non rido più. Il locale è semidistrutto, la saracinesca è tutta distorta e l’insegna è appesa da un lato. Chissà che fine ha fatto Gigi, il gestore, con la sua aria di smidollato sonnolento. Mi fermo e sbircio tra le fessure. Dal buio saltano fuori le sagome di due biliardi con le bocce ferme all’ultima giocata, i tappeti non più verdi ma grigi di polvere, le stecche abbandonate in terra, il segnapunti fermo a  “38 a 26”. Il cane si ficca dentro e scompare nel buio. Forse ha trovato quel che cercava. M’incammino per la via dove dovrebbe essere la mia casa. Tutto è irriconoscibile, al posto della strada c’è ora un sentiero polveroso pieno zeppo di detriti. Lo zaino militare che porto a tracollo diventa via via più pesante, come se non volesse più farmi camminare,  se non volesse farmi arrivare a casa. La bustina mi crea un cerchio alla testa ed il giaccone mimetico è sempre più pesante. E’ ridotto piuttosto male: è sporco, logoro, scolorito. Dietro ha un foro del quale non me ne sono accorto, sembra un colpo di fucile. Intanto che cammino noto che un uomo, di tutto punto ammantato di  nero come un cavaliere medioevale, mi segue a distanza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 Discretamente fa la mia stessa strada, gira agli stessi angoli dove giro io, si ferma  agli stessi posti. Non riesco a scorgerne il volto nascosto sotto il cappuccio del mantello, ma, stranamente, nonostante la lontananza, ne sento il respiro, ne avverto l’indefinibile odore.
 
A pochi metri da casa vedo seduta fuori al balcone Antonietta, una ragazza della quale ero e sono tuttora innamorato, una creatura che prima di questa guerra aveva uno sguardo tanto dolce quanto allucinato ora che lo rivedo. Ella è triste, i suoi occhi sono spenti, nel suo volto non c’è più sorriso, ma l’immagine affannosa di una sopravvivenza ottenuta chissà a quale prezzo.
Il mio primo istinto è quello di chiamarla, lo faccio, ma di nuovo le mie parole sono senza suono, allora saluto con la mano, ma Antonietta non mi vede. Intanto l’uomo ammantato è sempre lì che mi segue.
Ma cosa mi succede? Nessuno mi sente, nessuno mi vede…E chi è l’uomo che mi segue? Cosa vuole da me?
Ho attraversato monti e valli per tornare a casa senza neanche sapere se ho ancora una casa, se sono ancora vive mia madre e mia sorella.
Ora il mio passo è incerto perché, girato l’angolo, dovrebbe esserci casa mia. Ho paura di trovare un altro ammasso di pietre, oggetti conosciuti semisepolti. Ecco, sono giunto! Per fortuna la casa c’è, è intatta, tiro un sospiro di sollievo. Ora dai miei occhi scorre un fiume di lacrime che si inseguono fin sul giaccone militare dove vanno a morire. Busso. Dopo qualche secondo la porta si apre e lascia comparire mia sorella Emilia. Faccio per abbracciarla, ma lei improvvisamente chiude la porta. Ma che succede? Mi chiedo di nuovo cosa mi succede. Ribusso. Emilia riapre. Entro. Da un’altra stanza esce mia madre e dice:
- Mi è parso di sentire bussare…-
- Anche a me, - risponde Emilia – ma ho aperto e non c’era nessuno.-
Dio, quanto son belle tutte e due! Emilia con i suoi occhi che brillano di blu, con la sua giovinezza sfiorita, il suo volto dolce e rassegnato, i suoi modi di candida educanda e Mamma della quale né il tempo né gli affanni ne han cancellata la beltà.
- Mamma…Emilia…- chiamo con la mia voce che non ha suono – Sono tornato…-
Esse si girano come se un alito di vento le avesse sfiorate, si guardano intorno mentre io ripeto: - Sono…tornato…-
Cerco di abbracciarle, ma non ci riesco, le trapasso quali evanescenti figure. Fuori vedo l’uomo ammantato di nero che si volta e mi mostra un volto che non ha, poi con voce che blanda sembra cader dal cielo, mi dice: - E’ tardi…è l’ora…-.
 
 
 
                            Qualcosa mi spinge a lasciare la mia casa, è una forza dolce e suadente. Mi porta via come piuma al vento, e mentre vado aleggio sui miei ricordi e rivedo i giocattoli di quando ero bambino: le automobiline, i soldatini di piombo e di creta. Rivedo i miei vecchi quaderni di scuola elementare con le aste ed i tondini, poi via via quelli di italiano e quelli di latino.
Rivedo i miei libri, rivedo il vestito da ufficiale di marina che indossavo nel giorno della mia prima comunione, rivedo i pantaloncini corti che indossavo da bambino e quelli alla “zuava” che misi da diciottenne. Poi, in un vortice di vento mi volano davanti i giorni trascorsi da bambino con la mamma e da grande i giorni trascorsi a sospirare per la Emilia.
                            Poi le immagini svaniscono. Ora so, ora capisco cosa mi è successo. Ora so cos’è quel buco nel giaccone.    Addio Mamma! Addio Emilia! E’ tardi!  E’ l’ora!

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