Scritto da © rossovenexiano - Mer, 17/12/2014 - 11:23
Fermenti n. 241, anno XLIII (2014)
Periodico a carattere culturale, informativo, d’attualità e costume
Fermenti Editrice – Roma – 2014 – pagg. 657 - € 26,00
Numero da collezione
Considerazioni sui testi relativi all’Inserto Fondazione Piazzolla in Fermenti 241 (2014).
“Fermenti” è pubblicata con il contributo della Fondazione Marino Piazzolla di Roma, diretta da Velio Carratoni, che ha in catalogo numerosi testi di autori europei ed internazionali (www.fondazionepiazzolla.it).
Sono presenti le seguenti sezioni nell’Inserto Fondazione Piazzolla, parte finale della rivista: Interventi, Poesia, Arte, Notizie, Manifestazioni.
In Interventi scritti dedicati alla suddetta Fondazione: L’immagine della “torbiera” in Seamus Heaney, di Debora Biancheri, Seamus Heaney per la Fondazione Piazzolla, di Franco Buffoni, Omaggio a Cardarelli, di Velso Mucci e Marino Piazzolla (a cura di Alberto Alberti), Esilio sull’Himalaya in greco, di Crescenzio Sangiglio, L’ esilio felice: Piazzolla a Parigi, di Canio Mancuso.
In Poesia Il luogo dei morti, di Marino Piazzolla.
In Arte Giovanni Omiccioli, di Marino Piazzolla.
In Notizie Il senso del limite. Carlo Lizzani: “Stacco la chiave”, a cura di Velio Carratoni, sul Premio Penne.
In Manifestazioni: Presentazione Rivista “Fermenti” n. 240, “Scritture in movimento”, Volumi pubblicati con il contributo della Fondazione Piazzolla, Audio e video pubblicati sul sito www.fondazionemarinopiazzolla.it..
Scrive Debora Biancheri in L’immagine della “torbiera”in Seamus Heaney, “che nel contesto di una realtà contemporanea dove mode passeggere promosse dai media e celebrità dal successo effimero occupano un ruolo predominante, il diffuso sconforto in reazione alla scomparsa di Seamus Heaney ha segnato, seppur in tristi circostanze, una notevole eccezione.
E’ ormai raro infatti che una figura letteraria riesca a catturare l’attenzione internazionale e provocare risposte a livello popolare.
Il cordoglio espresso dalla comunità letteraria mondiale, e non solo, tramite le numerose commemorazioni e celebrazioni della sua opera a cui la dipartita del poeta ha dato adito, hanno confermato il valore di Seamus Heaney come una delle voci più importanti del tardo Novecento.
L’attività poetica di Heaney risale agli anni Sessanta, con la sua prima raccolta, Death of a Naturalist, apparsa nel 1966.
Il riconoscimento da parte della critica letteraria anglofona fu presto sancito dalle successive raccolte; tuttavia l’interesse del pubblico internazionale venne conquistato più lentamente, fino a che l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura nel 1995 consegnò definitivamente l’opera di Heaney alle luci della ribalta internazionali.
La scoperta italiana dell’autore riflette pressappoco questa cronologia, con antologie pioneristiche di editori quali Libri Schweiller e Fondazione Piazzolla nei primi anni Novanta, seguite da una crescente ondata di traduzioni infine consolidatesi nella regolare pubblicazione della nuove raccolte da parte di Mondadori, uno dei pochi editori in Italia a dare alla poesia una visibilità di tipo commerciale oltreché culturale.
Forse proprio per questo successo di pubblico venutosi ad affiancare al riconoscimento della critica, al di fuori dell’ambito accademico, Heaney è stato prevalentemente presentato al grande pubblico italiano, tramite recensioni ed eventi promozionali, come poeta “tellurico”, spesso cogliendo particolarità del paesaggio geografico e sociale irlandese a livello più elementare, e perciò elevando l’opera del poeta nord – irlandese ad una dimensione eminentemente universalistica.
Questa lettura, sicuramente permessa dell’ opera, è ulteriormente facilitata dalla presenza di aspetti particolarmente consoni alla tradizione poetica italiana, quali i temi pastorali e i riferimenti alla mitologia classica”.
Figura di letterato di notevolissimo spessore, Heaney, a dimostrazione della vitalità della poesia anche nella nostra epoca.
Nella sua poetica sono presenti tutti i temi fondamentali della sfera della vita, da quello naturalistico a quello degli affetti familiari, come quando fa riferimento ai genitori scomparsi, da quello religioso a quello politico, fino a quello amoroso.
Il poeta, che rivendicava la sua identità culturale nord – irlandese, si fa portavoce di valori universali di segno positivo, come quello dell’anelito verso la pace tra Irlanda del Nord e Irlanda del Sud, l’amore per la natura e per la bellezza.
La stessa fede nella parola poetica, che, partendo dalla dimensione privata e personale, possa veicolare un messaggio sociopolitico per la buona coesistenza delle nazioni e delle civiltà, è un elemento fondante in Heaney.
Un poeta accuratissimo nelle sue definizioni, nelle quali, a volte, si esprime con una nomenclatura scientifica, come quando dice, nel suo versificare, rosa canina e non semplicemente rosa,
Un autore da riattualizzare e da riscoprire ancora di più dopo la sua morte.
L’opera di Heaney, nella sua complessità, è centrale per entrare nel merito delle problematiche esistenzialistiche soggettive e universali della nostra contemporaneità.
In Seamus Heaney per la Fondazione Piazzolla Franco Buffoni afferma “che nel 1975, stando in Inghilterra con una borsa di studio, fu determinante per il mio destino poetico una plaquette di otto poesie edita da Raimbow Press e intitolata Bog Poems (Le poesie della palude). Autore: Seamus Heaney.
Quando si è molto giovani, facili sono gli entusiasmi; ben più ardua l’acquisizione di razionali coordinate estetiche e culturali.
Dopo quasi quarant’anni ammetto di essere stato fortunato: per aver letto tutti i libri fino ad allora editi di Heaney in un giorno o due, grazie allo stimolo ricevuto dai versi dei Bog Poems; per essere entrato così nel vivo della poesia inglese contemporanea (o meglio di lingua inglese) dalla porta principale.
Vorrei sintetizzare la grande lezione che appresi da Heaney in quei giorni ricordando che venivo da un Paese dove la poesia era stretta, e ancor più lo sarebbe stata negli anni immediatamente successivi, nella morsa ignobile dei cascami della neoavanguardia da un lato e delle astuzie del cosiddetto neoorfismo dall’altro: importante era che non si capisse più ciò che si leggeva; questo allora in Italia pareva costituire il sigillo della poesia.
Heaney fu per me una boccata di ossigeno: si poteva parlare in poesia di uomini e di donne, di storia, anche di politica – e d’amore, riuscendo a tutti leggibili senza scadere nel sentimentalismo, nella retorica e nelle rime facili: bastava avere effettivamente qualcosa da dire. Da narrare. Una lezione a cui sono fiero di essere rimasto fedele negli anni, malgrado i veri e propri “ricatti”(di gruppo, di tendenza, di “rivista che fa testo”) subiti all’ inizio del mio percorso.
Accadde poi che nel 1995 Seamus Heaney vinse il Premio Nobel. E col Premio Nobel ci fu la corsa alle traduzioni. Ma io sono rimasto fondamentalmente grato a quel libro in brossura dalla copertina verde, e spero tanto che la Fondazione Piazzolla voglia ristamparlo, magari come omaggio all’autore nell’agosto del 2014, in occasione del primo anniversario della scomparsa”.
Al poiein di ogni vero poeta è sotteso quasi sempre un modello, spesso una voce importante, nella quale l’autore ritrova un’affinità elettiva, utile come punto di partenza per sviluppare una poetica autonoma.
Può apparire per certi versi come un fatto insolito che un autore italiano scelga, come figura di riferimento, un poeta nord – irlandese che scrive in inglese.
Bisogna mettere in rilievo che il confronto con altri background culturali è di per se stesso un elemento positivo per la formazione, tanto più nel caso di Buffoni, che rinnegava il modello italiano di poesia a lui contemporaneo.
Ci si augura che la stessa Fondazione Piazzolla pubblichi altri libri di Seamus Heaney come omaggio al personaggio scomparso.
In Omaggio a Cardarelli di Velso Mucci e Marino Piazzolla (a cura di Alberto Alberti) riscontriamo lo scritto introduttivo di Alberto Alberti, Trasparenza d’ una tradizione formale di Velso Mucci e Un uomo antico in esilio in mezzo a noi di Marino Piazzolla.
Riporta Alberti “che il numero del 21 maggio 1950 della Fiera Letteraria fu quasi completamente dedicato a Vincenzo Cardarelli, direttore da poco più di un anno insieme a Diego Fabbri.
Aperto da una lettera di Giansiro Ferrata, Intendere Cardarelli, l’omaggio allo scrittore riunì interventi inediti e testimonianze su un personaggio ormai riconosciuto tra i grandi della letteratura italiana (mandarono scritti, tra gli altri, G. B. Angioletti, A. Barolini, V. Brancati, F. Carchedi, C. Carrà, G. Ferrata Velso Mucci, A Palazzeschi, M. Piazzolla, S. Solmi ed Elio Vittorini)”.
In Trasparenza d’una tradizione formale, di Velso Mucci, pubblicato sul suddetto numero de La Fiera Letteraria, l’autore afferma “che il viaggiatore che discenda le acque pigre e viziate dell’ultimo Ottocento e dei primi anni del secolo, si trova a un certo punto di fronte uno dei periodi più vivi e confusi della nostra storia letteraria, una specie di nodo che s’è venuto stringendo all’incirca tra il 1910 e il 1920.
Per l’influsso dell’opera di Croce, che aveva mosso lo stagno della cultura italiana all’inizio del secolo, la letteratura, ch’era dominio di professori, di filologi e di dilettanti, passò allora nelle mani di gente che aveva qualche verità da dire, il primo motivo, la ragione degli scrittori di quel tempo è, come tutti sanno, moralistica.
E proprio un moralismo così scoperto doveva esigere, oltre tutto, un suo controllo dei mezzi letterari.
Oggi noi non ci meravigliamo se quell’epoca nodosa e ritorta – dopo essersi impegnata nello studio delle più recenti letterature europee ed aver riportato sopra un piano di modernità con un lavoro di critica la letteratura italiana che s’era andata sempre più isolando e avvilendo – rinverdì un concetto di tradizione e riprese un contatto vivo con la tradizione italiana, proprio per l’opera di uno scrittore così preoccupato da interessi interiori (come allora si diceva) quale Cardarelli.
Qualche storico, invece, ha voluto tramandarci di quell’epoca un’immagine astrattamente scissa in due momenti contrastanti, il primo “moralistico” (e quindi negativo secondo lo storico, nei riguardi dell’arte), il secondo “artistico” e tra gli schemi di quelle due quinte non s’è trovato più drammatico personaggio da collocare che Vincenzo Cardarelli.
Egli è stato raffigurato come un giovane assillato di combattere la retorica e l’estetismo minaccianti le sue concezioni spirituali; e ci si è meravigliati di vederlo così artista, fin dalle prime righe.
Gli è che Cardarelli era uno dei figli più genuini del suo tempo, e perciò, fin dall’inizio ne aveva sentito le esigenze morali astratte, l’eticità – come egli amava dire – fino alla trasparenza del fenomeno letterario.
Valendosi anche delle “contrarietà della sua indole” egli sconvolge con la sua opera lo schema storico escogitato, ed è artista fin dalla prima pagina; ma, appunto, artista dei propri pensieri.
Ma egli restò impigliato in posizioni sperimentali e programmatiche; ma, neanche, d’altra parte, la sua arte fu mai semplice bravura artistica.
C’è una sua pagina che è di grande importanza a questo proposito, come data e come significato, la quale è stata quasi dimenticata; ed è quel “Metodo estetico” apparso sulla rivista Lirica del 1912: “L’artista ha qualcosa da dire al critico, e il critico, ch’è un uomo puro, deve ascoltarlo, aguzzando la sua attenzione in dentro, come accade talvolta di guardare, chini ad un ruscello, la pietra che sta ferma sul fondo e non l’acqua che vi scorre sopra; deve ascoltarlo e non fare delle sue parole un modo di porgere.
Bisogna diffidare di quelli che si mantengono troppo aderenti alla crisalide formale dell’arte, che fanno la critica col dito…
Sono degustatori d’affetti, non sono critici. Non produrranno mai un significato. Il significato si aggiunge solo al di là della constatazione formale, con un giudizio di puro contenuto. La forma, se è vera forma, cioè manifestazione di personalità, non è considerabile che come puro contenuto”.
A me pare che non si possa intendere l’opera di Cardarelli se non si tiene conto di questo metodo, dov’è compresa la poetica dello scrittore e dove si rivela un profondo segreto della forma: l’acqua che scorre sul fondo dev’essere così trasparente da lasciar scoperto il fondo stesso.
Fuori d’immagine, acqua o aria che sia, il mezzo che, se fosse nulla o il vuoto sarebbe il nulla assoluto, è tanto miglior segno quanto più comunica il significato”.
Profonda la visione dell’arte di Cardarelli, espressa nel suo “Metodo estetico”.
Il poeta si può considerare esponente dell’epoca di crisi della letteratura in cui è vissuto (soprattutto durante la sua giovinezza), e in tensione dialettica con l’ambiente culturale circostante.
Nella pagina di estetica dell’autore si nota una grande chiarezza, cosa rara in questo genere di scritti, soprattutto nella metafora del ruscello, del quale il critico deve guardare il greto.
Il Nostro afferma che il critico debba andare in profondità nell’esaminare l’opera d’arte, sintesi di forma e contenuto, secondo la formula crociana, per giungere ad una profonda comprensione della stessa.
Per Cardarelli è fondamentale il contenuto che sottende la forma e prerogativa del vero critico è quella di avere degli strumenti acuti dal punto di vista metodologico, caratterizzati anche da un forte spessore etico.
In Uomo antico in esilio in mezzo a noi, che fa parte di Omaggio a Cardarelli. Marino Piazzolla afferma “che Cardarelli ci riporta al tempo degli antenati cibati di terra e di grazia elementari. Nello spirito di questo scrittore, la frattura tra l’antico e il moderno si determina per virtù di un’intima forza selettiva, in cui la nostalgia risulta composta da miti precisi, e di una beata predisposizione all’arte dell’evocare.
Quella bellezza morale che agli antichi piacque piantare nel cuore dell’uomo come una prova concreta dell’esistenza, per cui non era possibile evadere dall’eticità senza rimanere impigliati nell’ errore e nel disumano, è presente, sin dall’inizio nella coscienza di questo uomo, a cui urge anche un ascetico amore verso l’altra bellezza: il disperato e a volte malinconico dialogo con la grazia dell’arte.
Per uno di quegli arcani processi d’integrazione segreta tra i cicli di civiltà spente e l’istinto di salvezza che nell’ uomo veglia a guisa di energia protettrice, Cardarelli rimane immune dal contagio di un’era chiassosa, legato, per istinto di sanità ed igiene dello spirito, ad una sostanza umana fatta precisamente di equilibrio e di coraggiosa difesa; come s’egli intuisse, fin dal suo primo proporsi come scrittore, la necessità di far sopravvivere nel suo linguaggio e nella sua condotta, il tremore di una civiltà casta, rimasta, col sole, nella memoria per Atene e per Roma.
Egli nacque perciò antico; tale s’ accorse d’essere quando il suo tono egregio, sempre si fece col tempo malinconico e attento; chiuso in un accento di precisa moralità; di elegiaco gusto, di sdegnosa umanità, tutta mobilitata alla difesa dei valori sepolti.
Occorre infatti rintracciare l’accento umano e lo stile di questo artista nella severa tristezza del vivere e sentire etrusco, come nell’alta e spaziale pietà omerica, fino al tessuto umano della mestizia virgiliana, elementi di meditata altezza espressiva in cui la vita dell’uomo si trasforma in saggezza o attesa melodiosa della morte”.
L’esilio di Cardarelli sembra realizzarsi più su un piano temporale che su coordinate spaziali.
Il poeta non condivideva il concetto di bellezza espresso dai suoi contemporanei.
Egli si rifà a modelli dell’antichità che riattualizza negli scritti e nelle sue poesie,
C’è una ricerca di classicità e non di classicismo nel pensiero teorico di Cardarelli, un anelito ad una maggiore sintonia con la natura che si rifà al mito della grecità.
Uomo a disagio nel suo tempo, anelava all’antico, non per trovare un conforto o un rifugio o un’uscita di sicurezza, ma per tendere ad una forma di umanità scevra da moralismi o ipocrisie e connotata da un forte spessore etico, da tradursi anche nell’arte.
Si può paragonare, con le dovute cautele, l’atteggiamento di Cardarelli a quello di Goethe, che, durante il romanticismo tedesco, sentiva la scissione dell’uomo con la realtà.
Il poeta tedesco si proiettava anche lui verso un ideale non solo artistico, ma anche di approccio alla vita, che tendeva al recupero della mentalità della Grecia antica, soprattutto del periodo attico, quando il tempio era costruito sulla collina per una migliore aderenza all’ universo.
In Esilio sull’Himalaya in greco scrive Crescenzio Sangiglio:-“ L’Esilio sull’Himalaya è il secondo libro di Marino Piazzolla da me tradotto in greco che vede la luce per le edizioni Fermenti, dopo il florilegio di Sole metallico, morbide lune, contenente oltre alle poesie di Gli anni del silenzio, Sugli occhi e per sempre e Il Pianeta nero, una ampia scelta dei Detti immemorabili e sopra tutto l’intero capolavoro delle Lettere della sposa demente.
In un prossimo futuro, infine, sarebbe prevista la pubblicazione del testo integrale, questa volta, di Sugli occhi e per sempre nella versione greca da me elaborata.
Una triplice esperienza piazzoliana, dunque, di notevole densità semasiologica, ove si consideri la particolare qualità dei testi poetici, stazioni peraltro fondamentali nell’iter artistico dell’autore, da una parte, e delle eccezionali prose aforistiche dei Detti dall’altra.
La mia fortuna è stata l’aver avuto da tradurre per prime le Lettere, un’opera che molto si avvicina, per luminosità verbale e struttura discorsiva, alla prevalente prassi compositiva della poesia greca, per temperamento contraria a poco plausibili aggregati ermetici e formulazioni astratte.
E a questa solarità mediterranea, anche nelle più ombrose espressioni, tipica del cosmo poetico greco, partecipano appunto le strofe delle Lettere – non v’è alcun dubbio.
D’altronde è più che logico che un poeta originario di una regione in cui tanta parte ha avuto la storica presenza culturale ellenica, coscientemente o no, tanto ne abbia subito l’influenza nell’intimo quanto più prossima ed accessibile risulti la sua costituzione genetica. E Piazzolla un po’ (o abbastanza) greco lo è!
Sicuramente ha cosparso tutta la sua opera di innumerevoli elementi caratteristici della cultura poetica greca sottilmente assimilata.
Basta leggere alcuni titoli di raccolte per convincersene: Elegie Doriche, Gli occhi di Orfeo, Dolore greco, Amore greco, Agalmata.
Così il discorso traduttivo si è svolto senza particolari intoppi tecnico – linguistici.
Lo stesso ambiente climatico che imbeve i testi delle Lettere e dell’Esilio mi ha fatto credere nell’atto di grecizzare i versi italiani, di star a scrivere lo stesso dei versi greci in originale, in una sintassi e un’articolazione linguistica, che quarant’anni di operosa prossimità mi hanno reso familiari e inconfondibili”.
La traduzione di opere poetiche è un lavoro produttivo che può avere anche qualcosa di affascinante.
Riflettendo sul tradurre Maria Luisa Spaziani lo paragonava ad una lotta con l’angelo (riferendosi all’episodio veterotestamentaria della lotta tra Giacobbe e l’angelo).
A proposito di questa operazione la poeta de La stella del libero arbitrio e di Transiti con catene aggiungeva metaforicamente che, anche se in casi rari, il traduttore può strappare una piuma all’angelo, riuscendo in questo modo a rappresentare, nel testo da lui elaborato, qualche subitanea accensione di bellezza, qualche espressione che può essere addirittura superiore a quella del verso di riferimento.
Quanto suddetto va nettamente contro la considerazione del lavoro della traduzione, che, genericamente, viene vista come qualcosa di riduttivo.
Sangiglio ci parla del pugliese Piazzolla come di un poeta profondamente intriso di suggestioni e cultura greca.
Questo elemento ci fa riflettere sul senso della profondità delle sue traduzioni nelle quali, al mero tradurre, si aggiunge il fattore significativo consistente nel fatto che i testi in italiano riportano, nel loro background, nel loro etimo, un qualcosa della visione del mondo e dell’archetipo della Grecia.
Questo elemento rende particolarmente intrigante il lavoro del saggista soprattutto per quanti possono leggere in lingua greca le traduzioni.
In Arte Giovanni Omiccioli di Marino Piazzolla da “Alfabeto”, quindicinale di arti scienze e lettere, nn. 21 – 24, settembre – dicembre 1958.
Scrive Piazzolla:-“Quando vidi per la prima volta i quadri di Omiccioli provai una deliziosa impressione: fui così colto dal desiderio di poter essere io l’abitatore tranquillo dei suoi orti dipinti quasi col fiato, rinfrescati da foglie silenziose e cosparse di pioggia, di luce, di un verde ingenuo, lasciato riposare sull’erba per dare al paesaggio l’incanto di un rifugio sia pure rustico e sghembo.
In realtà, quegli orti, resi vaghi e raccolti da una genuina carica poetica, sostituivano ormai nello spirito del lettore, lo sfarzo, il lusso, la varietà inquietante del paesaggio cittadino.
Dipinti con amore, essi davano allo stesso Omiccioli la felicità di avere trovato proprio alla periferia di Roma un angolo Charlottiano alla sua esistenza di uomo semplice che ritrova, nel silenzio dei fili d’erba e delle foglie, i colori di un’ingenuità perduta, l’atmosfera per sentirsi più umano, la pace necessaria per far capire agli uomini il valore delle piccole cose lasciate a sognare ovunque e in compagnia del pittore.
In questo universo di barattoli vuoti, di papaveri spavaldi, di tegole rosse e turchine rivolte al cielo per far capire all’infinito la magia del finito, si poteva immaginare, nascosto dietro una larga foglia o dietro una siepe arruffata, un gallo rauco o un pettirosso intento a fischiare solo per onorare la pace del luogo.
In quegli orti, ora smaglianti e ora vaporosi per una sorta di nebbia verde uscita di fresco dal suolo accidentato, sbocciavano, come creaturine dimesse, casette di un rosa acceso con finestrine verdi soffiate appena dal pennello, tali da far pensare a nascondigli di vagabondi, a lettini di fanciulli poveri, a nidi di cardellini nascosti sotto le tegole di un rosso indimenticabile.
Il bisogno di umiltà e di candore aiutava Omiccioli a dipingere, in armonia con se stesso, quella umanissima che ci fece amare la sua poesia; soprattutto la pietà dell’ uomo per le cose e le creature vinte e abbandonate”.
Un approccio empatico alla sorgiva pittura di Omiccioli, quello di Piazzolla, improntato ad una grande chiarezza e immediatezza, con una scrittura che tende ad una forte linearità dell’incanto.
C’è nella prosa del saggista un vago realismo che pervade le rappresentazioni di bellezze naturalistiche sia vegetali che animali.
Possiamo immaginare il pittore nella sua fusione ontologica con la natura circostante, ispiratrice dei suoi dipinti.
Le sue tele sono sottese ad una vena semplice ma non elementare, in netta controtendenza a quelle di tanti suoi colleghi a lui contemporanei, che si esprimevano in modo più intellettualistico e spesso tendente all’astratto, al surrealista o al metafisico.
Figurativa la pittura di Omiccioli, che nel suo cromatismo e nel preciso delinearsi delle figure, trova la sua cifra essenziale.
Un modo di fare arte che tende ad una dimensione creaturale, ad una forma di amore sincera, ma non ingenua, per gli uomini, la bellezza e per Dio.
In Notizie Il senso del limite, Carlo Lizzani: “Stacco la chiave”, sul Premio Penne.
In Carlo Lizzani: “Stacco la chiave”: Carlo Lizzani. Un protagonista da storia borghese, sempre meno vera, scrive Velio Carratoni:-“Testimone di fatti storici/reali, a 91 anni se n’è andato, seguendo coerentemente la frase d’ addio, dimostrando che oltre la realtà e i fatti non può esserci altro che la fine. Un po’ come la fine dei film che, pur non avendo sempre un termine, hanno conclusioni da stimolo.
Lizzani non era un calligrafo, ma un osservatore della realtà che non amava l’invenzione. Preferendo invece il metodo della personalizzazione dei personaggi o la rievocazione delle storie letterarie (Cronache di poveri amanti, La vita agra, Fontamara) per non sottovalutare le rievocazioni storiche politiche o del contorno bellicistico (Germania anno zero, Il processo di Verona, Mussolini ultimo atto).
Anche le storie riguardanti l’attualità del costume post bellico colpiscono la sua attenzione (Il gobbo, Banditi a Milano, La società del malessere, Storie di vita e malavita, Mamma Ebe) provenienti dai suoi interessi di cronaca giornalistica e di attualità, impregnati di senso dell’invenzione e dell’interpretazione da rievocare.
Rimaneva in tal senso un freddo interprete di una società in declino civile.
Ma i suoi interessi non si limitavano a questo. Quando c’era un dibattito sulla storia del cinema, sul costume, i suoi interventi lasciavano il segno, riuscendo a volte a superare critici, esteti, storici dello spettacolo.
Si dovrebbero recuperare le sue analisi ove emergono interpretazioni stimolanti sul cinema, sui suoi compagni di strada numerosi e vari, stimati per la chiarezza.
Nel 2006 in occasione di un omaggio a Giose Rimanelli, aveva ricordato con Giuliano Montaldo gli anni di Tiro al piccione, tratto da un romanzo dello scrittore, divenuto film diretto da Montaldo. E la Fondazione Piazzzolla, in nome dell’amicizia tra Marino e Giose, aveva organizzato tale incontro da Bibli, che è possibile rivedere al seguente indirizzo:
Aveva partecipato ad altri incontri, sempre da testimone prezioso, distinguendosi come autentico esponente di una cultura da rivisitare. Ha preferito interrompere violentemente e inaspettatamente la sua storia, alla maniera del suo amico Monicelli, in un pomeriggio dei primi d’ottobre, in una Roma imballata da apparati burocratici, sempre meno umani e autentici”.
Rappresentante di grande intelligenza di un pensiero che supera di gran lunga l’acrisia tipica della nostra contemporaneità (spaziando dalla politica alla storia, dalla letteratura, al cinema, al costume), Carlo Lizzani può essere considerato una figura di intellettuale tra le maggiori del panorama italiano odierno.
Possiamo immaginarlo nel suo immergersi nelle problematiche sociali ed estetiche, emergendone con produzioni di saggi notevoli, sempre coerenti per il suo impegno etico.
Un rappresentante della società italiana, unico per perspicacia e poliedricità, nel suo eclettismo, sempre attento a comprendere la realtà a lui circostante.
La sua tragica scomparsa ci addolora, una fine che non sembra coerente con il suo attaccamento alla vita, espresso dalla sua stabile tensione verso tutte le sue manifestazioni, soprattutto quelle della sfera culturale.
In Sul Premio Penne: “Lettera aperta al Presidente della Regione Abruzzo On. Giovanni Chiodi
e al Direttore di “Il Centro” Mauro TEDESCHINI
La presente non per esprimere lagnanze o avanzare recriminazioni.
A nome della Fondazione e Museo Marino Piazzolla esistente dal 1988 per promuovere iniziative a favore della cultura, come previsto dallo Statuto, nel 2000 sollecitati da esponenti importanti del Premio Penne come Walter Mauro, Michele Dell’Aquila, Luciano Luisi, essendo stati amici del fondatore del Premio Gaetano Salveti, di Mario Sansone ecc. oltre a Igino Creati da noi conosciuto fin dagli anni Settanta, abbiamo accettato di collaborare alla gestione del Premio che dopo il rischio di eliminazione della Sezione Poesia ci è stato chiesto di inglobarlo nel Premio di Poesia “Città di Penne – Fondazione Piazzolla”, con quest’ultima che si è accollata ogni onere finanziario (premi per il vincitore assoluto e per l’opera edita).
Grazie a tale collaborazione autori illustri come Sergio Zavoli, Franco Buffoni, Biancamaria Frabotta ecc. si sono avvalsi dell’ambito riconoscimento che oltre alla giuria tecnica ha avuto il placet della Fondazione, per garantire le scelte da influssi esterni, locali o di parte.
La garanzia della Fondazione Piazzolla era motivata dal fatto che il fondatore, pur essendo stato un autore di poesia e critica, trattato da illustri personaggi come Emilio Cecchi, Camillo Sbarbaro, Libero De Libero, Pietro Cimatti, Giorgio Bàrberi Squarotti, Maria Zambrano, Giuseppe Marotta, Giacinto Spagnoletti, Giose Romanelli, Jean – Paul Sartre, ecc. agli inizi degli anni Ottanta gli era stato assegnato il Premio Tagliacozzo, presieduto da Alberto Frattini.
Piazzolla era legato all’Abruzzo per avervi insegnato per diversi anni, come da foto aggiunta qui sotto, prima di divenire titolare della cattedra di Storia e Filosofia al Liceo Dante di Roma.
Di recente è stato anche celebrato il Centenario della sua nascita presso l’Università di Urbino e la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, con la partecipazione di studiosi e studenti.
Le varie fasi del premio si sono svolte con seguito di consensi da parte del pubblico, sempre numeroso e partecipe.
E’ stata, quindi, una sorpresa che dopo la proposta di proseguire la collaborazione anche per il 2013, alla morte di Igino Creati venivamo a sapere per caso che la giuria tecnica, tra i quali saremmo dovuti risultare anche noi, sarebbe stata consultata in merito all’elezione di un nuovo Segretario Regionale.
Inoltre, sentito il Presidente di allora, risultava anche lui non informato di questa nuova operazione.
In queste condizioni siamo stati costretti a rassegnare le dimissioni, pregando il Comitato promotore di accoglierle senza indugio.
Nel frattempo venivamo a sapere che il Premio in questione sarà sostenuto dalla Regione Abruzzo, essendo stata attribuita l’eccellenza per quanto stabilito nel corso degli anni, senza che nessuno della giuria o dell’ organizzazione si fosse degnato di inviarci un grazie per quanto da noi fatto per rendere il Premio Penne valido ed efficiente”.
La suddetta lettera aperta, inviata da “La Presidenza”, “Fondazione Marino Piazzolla” al Presidente della Regione Abruzzo (che sosterrà il Premio Penne), parla da sé.
La missiva ha un taglio polemico; la premessa agli eventi recenti consiste nel fatto che, per diversi anni, la Fondazione Piazzolla ha collaborato alla gestione e al sostenimento finanziario del Premio “Città di Penne – Fondazione Piazzolla”.
Nella lettera è espresso il risentimento dello stesso ente in merito al fatto che, dopo la proposta di proseguire la collaborazione anche per il 2013, alla morte di Igino Creati, si veniva a sapere, per caso, che la giuria tecnica, nella quale sarebbero dovuti risultare anche i rappresentanti della Fondazione stessa, sarebbe stata consultata in merito all’elezione di un nuovo Segretario Generale.
Per questa situazione la Fondazione e Museo Marino Piazzolla è stata costretta a rassegnare le dimissioni, chiedendo al Comitato promotore di accoglierle immediatamente.
In Manifestazioni, Audio e video pubblicati sul sito www.fondazionemarinopiazzolla.it ritroviamo un elenco di audio e video di alcuni eventi organizzati in collaborazione con Fondazione Piazzolla.
La Fondazione Piazzolla svolge un’intensa attività di carattere culturale: (presentazioni, incontri, assegnazione di premi di poesia, concerti e altro).
Essa prende il nome dal suo fondatore Marino Pasquale Piazzolla, poeta, critico, filosofo, pittore.
Il Nostro è stato il fondatore dell’associazione, dopo la sua morte, avvenuta a Roma nel 1985, per sua volontà testamentaria.
Piazzolla è un autore, nato a San Ferdinando di Puglia (Foggia), il 16 aprile 1910.
Nel 1931, si trasferisce con la sorella a Parigi ed è assunto in qualità di segretario e bibliotecario della Società Dante Alighieri e conosce, tra gli altri, Pierre di Nolhoe, Marinetti e Fiumi.
Nel 1937 ottiene il diploma di Studi Superiori di Filosofia alla Sorbona.
E’ un poeta tra i più importanti del Novecento italiano, che, in vita, ha ottenuto numerosi riconoscimenti nel mondo culturale, ed è stato riconosciuto il suo indiscutibile valore; anche Sartre, Gide e Cecchi si sono interessati all’opera di Piazzolla.
Il poeta ha sempre rifiutato compromessi, dissociandosi da giochi e benefici..
Ha riportato molti e prestigiosi premi..
Ha pubblicato numerose raccolte di poesia, alcune anche in lingua francese.
Tra le sue opere più significative: Elegie doriche (1951), Lettere della sposa demente (1952), Esilio sull’Himalaya, (1953), Pietà della notte (1957), Mia figlia è innamorata (1960), Gli occhi di Orfeo (1964), Viaggio nel silenzio di Dio (1973), L’amata non c’è più (1981), Il pianeta nero (1985).
Dopo la sua morte, come spesso accade. si è manifestata un’attenzione critica ancora maggiore su Piazzolla. .
Il poeta, che ha praticato anche la pittura, ha ricevuto riconoscimenti postumi.
Essi ne hanno delineato l’immagine di un artista interessante e originale e anche quella di un critico e di un intellettuale intelligente e di grande spessore.
La Fondazione Piazzolla, associazione di carattere culturale, che ha sede in Roma, in Italia è di certo una delle più note e attive, tra quelle che fanno riferimento al nome di un poeta, con le sue numerose attività, tutte di alto livello.
E’ un fatto positivo che, nel nostro postmoderno occidentale, nella nostra contemporaneità, in un clima culturale e di costume, dominato dai mass media e dalla loro superficialità, nonché dalle loro valenze negative, esistano istituzioni come la Fondazione Piazzolla.
Essa è in grado di convogliare le energie positive dell’arte, per un pubblico vasto ed attento.
Questo avviene per l’estrinsecarsi di un pensiero divergente, nel segno della creatività, che tende al recupero dei veri valori dell’essere umano.
La tensione verso il bello e l’arte nella perdita di intimità dell’uomo con la natura, tipico della nostra epoca, ha bisogno di essere rivalutata.
Essa deve rivivere tramite l’amore per la poesia e la bellezza in generale, la sua fruizione e la sua diffusione, compito che la Fondazione Piazzolla svolge nel migliore dei modi e che è fondamentale per incrementare una vera cultura dei valori nella nostra società.
P.S.
Le parti in corsivo e tra virgolette sono riportate direttamente dal testo della rivista “Fermenti” 241
Raffaele Piazza