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Capitan Achab (Nikon)

Chiedo all’istante un minuto di riflessione, risponde non mi è possibile. Allora lo chiedo all’altro istante, che dice: sei tu a dover rispondere.
Giro d’intorno tra indifferenza, dramma e solitudine Di non capire, non riuscire a far comprendere la mia presenza. Assenza di tempi che trascorrono indipendenti da me, il mio esserci.
Postscriptum: magnum, anch’io.
Vorrei un posto di lavoro, anche part-time verticale, non disponibile all’orizzontale, al prono, si al crono. Vorrei un treno ideale dove incontrarmi una volta ancora con la mia ragazza a prendere un the, lei; io un caffè. Del rispetto degli orari, allora, non m’importerebbe più. Lo vorrei a divani letto estraibili a costi interregionali, lenzuola e cuscini di bucato al profumo di lavanda, io; lei Chanel n.5, è piuttosto tradizionalista, anche se per tutto quanto altro non sembra. Non com-pare in sogno, ad esempio, che dopo 9 ore di ritardo, con la scusa che è impostata sul fuso di Tokio. Ma io amo le geishe, la perizia con cui ti preparano la loro bevanda preferita.
L’ho incontrata a cavalcioni sul corrimano della Fontana di Trevi, il viso di porcellana sbattuto dalle azzurre onde procellose di quelle acque perenni. Di sotto degli occhiali da sole mi chiese, mi chiese due volte almeno perché lo domandò nel più assoluto silenzio in perfetto sol levante, se, dopo averla sbalzata di lì, volessi anche fotografarla sottane all’aria. Aveva lo sguardo implorante, la Nikon tesa. Lasciai cadere le monetine fino ad allora raccolte e m’involai con lei e la sua comitiva.
Roma Tokio, undici ore e trenta senza scalo. Lì, per mantenerla, m’imbarcai su una baleniera. La comandava capitan Achab sguardo a mandorla pantaloni traforo di san Gottardo, suo zio. Tradizioni del tutto familiari.
Quando tornai mi disse che sapevo di capodoglio e di polvere da sparo, e che le ero mancato. Entrò nella vasca bollente con me, e si liquefece.
Di c’era.
 
 
 

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