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Il Gazebo

S’accorse di aver cliccato inavvertitamente con il dito pollice, o forse con un’intenzione partita da un inconscio che non aveva fatto in tempo, o voluto, controllare, sul tastierino in basso a destra del Motorola stretto longitudinalmente tra le dita.
Aveva lasciato scorrere più volte la piccola camera, nelle prime ore del pomeriggio dopo avere mangiato un panino al bar-mensa dell’ospedale ed aver letto tre quotidiani, su giardini pieni zeppi di siepi e parcheggi ai lati, e mancanti di aiuole, per documentare, insieme allo squallore di una totale assenza di colori vivi naturali, la similitudine con lo stato d’animo che quel giorno, e in quell'ora, lo stava soffocando.
Attendeva di conoscere l'esito di un intervento operatorio che si andava prolungando oltre il previsto e, impaziente com'era, avrebbe desiderato quasi che la natura gli avesse voluto anticipare, con il suo rigoglio, un segno benevolo e comunque di speranza.
Arrivato all’altezza dell’unico gazebo del prato circondato da padiglioni di cemento vivo, era rimasto colpito dall’improvvisa macchia azzurra che gli aveva invaso l’obiettivo e l’occhio, quasi una fastidiosa puntura di un insetto che avesse voluto arrecargli un ulteriore danno.
Andrea abbassò il cellulare fino al petto, per rendersi conto se fosse la rifrazione o l’insetto veramente, e rimase a guardarli ad occhio nudo.
Era un’intera famiglia, una famiglia probabilmente nordafricana, o indiana.
Dalla ventina di metri da cui li stava osservando non avrebbe potuto dirlo con certezza., poi invece pensò, magari sono pakistani. La donna che aveva dato colore alla camera del cellulare difatti, vestiva una specie di sari e gli uomini seduti in circolo sulle panche, coi bambini e tre donne più anziane, vestivano vesti lunghe fino ai piedi di un bianco sporco e sulle labbra portavano mustacchi importanti.
Andrea pensò ancora, deve essere la figlia, perché nessuno dei due uomini aveva i mustacchi color bruno.
La donna in piedi stava distribuendo sul tavolo circolare, tirandoli fuori con cura da sacchetti di plastica ad uso alimentare marchiati coop, sacchetti di carta bianca grandi e piccoli, e due pile di piatti e bicchieri, di plastica lattea.
Quand’ebbe finito ripiegò e stirò con le mani, appiattendole sul tavolo, le buste targate, e le ripose in una sporta di tela appoggiata sul pavimento di legno del gazebo, da cui per ultimo tirò fuori, come dal cilindro di un prestigiatore, sei bottigliette d’acqua, poggiandole a due a due sullo stesso tavolo: due davanti ai bambini, due davanti agli uomini, due davanti alle donne.
Con quei suoi movimenti lenti e calmi, ad Andrea venne in mente la devozione di un rituale antico quanto l’uomo, la donna, quasi chiedesse il permesso, finalmente sedette sullo spigolo ultimo della panca, e solo allora Andrea la riconobbe.
Era la giovane che la tarda mattinata antecedente il giorno di festa, aveva battuto discretamente l’anello che portava alla mano destra sullo schienale della panchina su cui stava leggendo un giornale, chiedendogli se, nel parco, vi fosse una fontana.
Andrea andò ancora a quel mattino, troppo breve era il tempo per scordarsi gli occhi, la pelle, la bocca della musulmana.
Gli occhi s’erano fatti sfrontati nel parlare allo sconosciuto infedele, indirizzandosi poi alla siepe lì vicino mentre egli rispondeva di non saperlo, e la bocca, la bocca si apriva sorridendo su una fila superiore di gigli bianchi distanziati. La pelle, era di luna.
Prima dello scatto, con l'aria sorpresa delle foto di un'epoca remota, i due avevano contemporaneamente sorriso.
Un sorriso veloce ed abbagliante come un flash, lungamente sospeso tra gli azzurri ed il bianco del sari della ragazza.

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