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Giuspìn ha mani contadine sul fiume (a mio padre)

Giuspìn ha mani contadine che arano
[il fiume e un campo di menta]
carezze ruvide, appoggiate
alla fatica di giorni, come acini d’uva
agra, spessa. E occhi chiari
senza resa di affanno, o silenzio,
ma il muto tacere di chi sa
il mutare del tempo.
 
Erano stati campi di fame, arati,
canapa frusciante, erano sere
che le stelle toccavano volti scolpiti
e la whermatch sciabolava i canini
nella piana padana. Ed un forno
caldo di pane e la sete del cielo
e l’ansa del Pellice e la stoppia
di chicchi di grano, la legna bruciata.
 
“Pancalè, Vigon, l’è sempre strac ‘l temp
pianso i mört l’anima straca dij giovo
c’à goardo ‘l mar, c’as baso sota
ij euj ratà d’la memöria”.(*)
 
Senza ragione d’arresa,
convulsioni di mente, e affanni
quei passi, con la stanchezza pesante
d’un cuore che s’arrende, lento
al mutare d’equinozi, quel resistere
[ostinato, duro, come radice di quercia]  
ed essere onda di terra nel mare,
acqua che disseta zolle assetate.
 
E l’orizzonte, è sole che cala, a colori
spezzati [è indaco di cuore e di mente]
è amore tranciato, scordato, ripreso
con gesti che sono spargere semi
affinchè la notte non sia paura
ed ogni cosa, ogni più piccola cosa
abbia, [con la saggezza dei filari di pioppi]
la sua giusta misura.
 
“E mi ‘t goardo, e saj nen come dilo
che lontan à j'è ancora ‘l sol,
saj pröpi nen come dilo, a ti, pare
che l’aj daosogn ‘d ti”.(**)
 
--- 
 
Piemontese del sud della provincia di Torino
 
(*)Pancalieri, Vigone, è sempre stanco il tempo
piangono i morti l’anima stanca dei giovani
che guardano il mare, che si baciano sotto
gli occhi graffiati della memoria.
 
(**)E io ti guardo, e non so come dirlo
che lontano c’è ancora il sole
non so proprio dirlo, a te, padre
che ho bisogno di te.

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