Il faro dell'Isola dei Cavoli | Prosa e racconti | Claudio | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Il faro dell'Isola dei Cavoli

 
Spesso nella vita non conta tanto ciò che già è avvenuto,
quanto piuttosto ciò che ancora potrebbe accadere.
 
 
 
 
 
Il giorno in cui la vita di François Demelle cambiò per sempre, fu per molti versi un giorno come tanti. Il sole caldo e accecante splendeva alto nel cielo terso di Parigi, mentre il vento di tramontana, poderoso e gelido, levatosi la notte precedente, aveva allontanato l’afa asfissiante delle settimane passate.
A detta dei metereologi, le prime avvisaglie d’autunno avrebbero cominciato a farsi sentire bussando di lì a poco alle porte della stagione estiva quasi agli sgoccioli. Una mattinata fresca e gradevole come non si godeva da tempo, perfetta per una passeggiata rilassante ai Giardini di Lussemburgo, immersi in quell’inattesa frescura. A far compagnia a François, c’erano Julienne, sua inseparabile compagna da oltre sei anni, e il nonno Jean Claude.
 Il parco era situato non molto distante dall’abitazione dei Demelle, bastava camminare neppure una ventina di minuti per raggiungerlo. Nonno Jean Claude adorava i Giardini di Lussemburgo. Visitarli lo riempiva di una gioia enorme, eppure sempre nuova. Era stato lì, immerso in quel verde rigoglioso che circa cinquantacinque anni prima aveva incontrato sua moglie Paolette. Tra aiuole profumate e piante bizzarre provenienti da ogni angolo del pianeta, l’aveva corteggiata per intere settimane con discreta insistenza. Sino a quando, su di una panchina in legno all’ombra della vecchia quercia posta proprio al centro dell’immenso labirinto verde, s’era infine deciso a dichiarare a Paolette tutto il suo amore. Si conoscevano e frequentavano da soltanto sei mesi quando avevano preso la decisione di sposarsi. Entrambi sapevano che il sentimento nato tra loro dopo i primi sguardi li avrebbe condotti lontano. Molto lontano. 
Ma soprattutto, avrebbe reso la loro vita insieme un’esistenza felice, fatta di esperienze e di complicità. Di un legame profondo che neppure la morte inattesa di Paolette, avvenuta quaranta anni più tardi, avrebbe saputo e potuto interrompere. Il filo sottile che ancora univa Jean Claude a sua moglie era rimasto forte nonostante lei, suo malgrado, avesse dovuto lasciarlo. Così intenso che quando l’uomo s’incamminava da solo lungo gli ampi sentieri alberati dei Giardini, aveva sempre la sensazione che Paolette fosse ancora lì, al suo fianco. Come ai vecchi tempi, con la mano magra e affusolata appoggiata delicatamente sul suo avambraccio. Era in quei momenti che per sentirla ancora più vicina Jean Claude si consolava narrando a suo nipote e a Julienne degli anni felici vissuti con Paolette, lasciando che valanghe di ricordi, aneddoti ed episodi ormai consegnati alla memoria, gli facessero compagnia giorno dopo giorno nell’attesa dell’istante in cui avrebbe finalmente potuto riabbracciare la sua dolce amata. Quella mattina però, a differenza delle altre volte, François, suo nonno e Julienne si erano intrattenuti più a lungo del solito nel parco, e per questo, verso le 13.30, avevano deciso di pranzare al ristorante presente al suo interno. Un posto splendido, unico nel suo genere, impreziosito da una grande cascata artificiale che lambiva su di un lato la vasta area ristoro. La quale, a sua volta, era stata posta al centro di una fitta pineta di alberi sempreverdi e un prato inglese rigoglioso come pochi se ne potevano trovare da quelle parti. Nessun altro ristorante a Parigi avrebbe potuto competere con quello dei Giardini di Lussemburgo. 
La cura dei dettagli tra i quali ci si riusciva a immergere con il solo sguardo era impressionante e fuori dal comune. In più, la calma che regnava in ogni angolo della pineta, avrebbe fatto invidia a quella della più assolata delle boscaglie del nord Europa. In un simile contesto era stato facile per François e Julienne decidere di restare lì ad ascoltare i racconti di nonno Jean Claude sino al pomeriggio inoltrato. 
I tre erano da poco rientrati dalla lunga passeggiata quando una telefonata squarciò il silenzio della casa. François fu colto di sorpresa dall’insistente trillo mentre percorreva lo stretto corridoio del piano terra. Si fermò, tornò sui suoi passi e sollevò la cornetta dell’apparecchio fissato alla parete.
“Pronto?”
 “Il signor François Demelle?”
 “Sì sono io, chi parla?”
“Qui è la Gendarmeria di Parigi, signore. Avremmo bisogno di parlarle. La troviamo in casa tra un quarto d’ora?”
François s’irrigidì, d’istinto. Julienne nel frattempo, passandogli davanti mentre cercava di accarezzarlo dolcemente, notò la sua espressione disorientata. S’arrestò incuriosita e si girò verso di lui. Poi, rimase in ascolto con aria preoccupata. Mentre lo udiva parlare cercava di incrociare lo sguardo di François, così da sapere chi stesse all’altro capo del telefono. Gli occhi del ragazzo però, erano assenti. Come persi nel vuoto.
 “Sì… sì, certo che mi trovate. Sono appena rientrato. Ma cosa è successo? Perché chiamate?” Il tono della sua voce non lasciava presagire nulla di buono. Julienne ne era certa.
“Ora non posso fornirle altri particolari signor Demelle. Piuttosto, abbiamo bisogno di farle alcune domande... Stiamo arrivando.”
 Un istante dopo il maresciallo Marcuse ripose la cornetta del telefono. Quando il commissario Renò entrò nella stanza in cui si trovava Marcuse, questi si era appena congedato dal ragazzo.
“Il figlio dei Demelle, François, è appena rientrato, commissario Renò. Vi sta aspettando” lo avvertì.
 “Bene” rispose lui soprappensiero, con voce spenta.
 Era venuto il momento di recarsi a casa Demelle.
 “Non vorrei stare al suo posto commissario…”
Renò incrociò lo sguardo del maresciallo.
Non sapeva che rispondere. Un simile compito non gli era mai capitato prima. In più, quell’infausta incombenza lo aveva colto di sorpresa un paio d’ore prima mentre si trovava a casa con sua moglie nel suo unico giorno di riposo da oltre due mesi. Renò rimase immobile per alcuni istanti, strizzandosi le labbra con evidente rammarico. Senza proferir parola, assorto nei suoi pensieri si richiuse la porta alle spalle. L’espressione dei suoi occhi fu l’unica replica al maresciallo Marcuse.
 Nel frattempo, anche Jean Claude aveva raggiunto i due ragazzi nel corridoio. Li vide entrambi in silenzio che si guardavano, e la cosa gli sembrò alquanto strana.
“Che è successo figliolo?”
François aveva ancora il telefono in mano. Volse lo sguardo verso il nonno, quasi stupito, cercando di riporre la cornetta al suo posto. Con estrema lentezza. Julienne continuò a rimanere in silenzio. Non riusciva a comprendere il perché dell’improvvisa inquietudine che aveva preso a scuoterla dopo aver ascoltato lo scorcio finale della conversazione di François.
“Era la Gendarmeria, nonno.”
 “E chiama qui?”
 “Sì.”
 “Immagino abbiano sbagliato… vero?”
 “No, non credo” aggiunse François, interdetto.
 “Ma allora, che volevano?”
 “Non lo so. Proprio non lo so...”
“E’ successo qualcosa?” intervenne Julienne.
 Il suo tono timoroso tradiva la calma che cercava di ostentare.
 “Non saprei, mi hanno solo detto che hanno bisogno di farmi alcune domande.”
 “E su che cosa?” aggiunse ancora Jean Claude.
 “Non hanno voluto dirmelo. Comunque, stanno arrivando.”
 “Qui? Ora? Addirittura!”
 Jean Claude era disorientato. Cosa potevano cercare in quella casa dei poliziotti della Gendarmeria francese? In tanti anni che abitava con la famiglia di sua figlia non aveva mai visto recapitare a quell’indirizzo neppure una semplice multa per eccesso di velocità. Cos’era accaduto di tanto importante da rendere necessaria una loro visita così immediata? Un profondo brivido corse rapido lungo la schiena di Julienne. A pelle concordava con il nonno di François. Doveva trattarsi di una questione parecchio importante per costringere dei poliziotti, d’improvviso, a una visita a quelle mura. Il suo sesto senso femminile le faceva avvertire come concreto il timore che fosse accaduto qualcosa di orribile. Dentro di sé ipotizzava anche cosa potesse essere quel ‘qualcosa’, ma non aveva il coraggio di confessarlo. Neppure a se stessa.
“Sì nonno, ti ripeto, stanno arrivando. Hanno chiesto di aspettarli. Saranno qui tra poco più d’un quarto d’ora.”
 François non aveva idea di cosa pensare, ma sapeva bene di avere la coscienza a posto. Non c’era nulla da temere per lui, dunque ogni preoccupazione sembrava priva di fondamento. Eppure la circostanza istintivamente non gli piaceva affatto.
“Non ci resta che attendere il loro arrivo” concluse François.
 “Ascolta, non è che per caso voi… avete…” sibilò tra i denti Jean Claude, lanciando uno sguardo malizioso all’indirizzo di entrambi. François si girò nella sua direzione distogliendo momentaneamente l’attenzione dai suoi pensieri.
 Aveva intuito cosa il nonno volesse intendere con quella frase sibillina.
 “Avete cosa, nonno?” gli rispose infastidito il ragazzo, con aria di sufficienza. In breve, anche Julienne fissò Jean Claude, certa che la sua fosse stata poco più che una battuta per sdrammatizzare il momento.
 “Non saprei, ma la sera quando si vuol star soli alla vostra età si rischia…”
 “Nonno smettila, non è il momento di scherzare! Io e Julienne non abbiamo fatto nulla di male.”
 “Ma per carità, non dicevo questo, ci mancherebbe altro. E’ solo che…”
 “E’ solo che nulla, nonno. Te lo ripeto, non abbiamo fatto niente d’illegale, né abbiamo corso alcun rischio. Non c’è altro da aggiungere, chiaro?”
 “Va bene François, come non detto. Mi spiace, scusami...”
 Il ragazzo socchiuse le labbra con una smorfia di mal celata sopportazione. Nutriva un amore indicibile per suo nonno, ma sapeva anche bene che a volte conveniva semplicemente non dar troppo peso ad alcune sue affermazioni, alquanto estemporanee. Ogni minuto che passava, l’ansia dell’incontro con i poliziotti della Gendarmeria si faceva sempre più spasmodica.
 E con essa, l’attesa del loro arrivo non poco snervante. Nessuno dei tre cercava di avanzare ipotesi sulla possibile ragione della loro visita, ma ognuno dentro di sé tendeva a temere il peggio. Circa venti minuti dopo la telefonata, suonò inconfondibile il campanello della porta d’ingresso. Il silenzio ovattato della casa fu squarciato d’improvviso. François, il nonno e Julienne erano seduti in soggiorno. Fermi, intorno al tavolo, avevano atteso quell’istante in religioso silenzio, ma ora che era giunto il momento nessuno sembrava aver voglia di andare ad aprire. Trascorsero altri lunghi, interminabili istanti prima che anche il secondo insistente trillo tuonasse come un boato nell’irreale quiete persistente. Soltanto allora François si alzò e si diresse verso la porta d’ingresso.
Non appena l’ebbe di fronte indugiò ancora qualche istante. Poi, trattenendo il fiato si fece coraggio e l’aprì.
 “Il signor François Demelle?”
 “Sissignore, sono io” rispose il ragazzo, con voce timorosa.
 “Sono il Commissario Renò della Gendarmeria di Parigi, e il mio collega è il maresciallo Peroche. Possiamo entrare?”
 “Sì sì certo, certo. Vi stavamo aspettando. Prego, seguitemi.”
I due poliziotti erano alti e ben piazzati, con delle facce assai poco raccomandabili, a dir la verità, per essere dei funzionari di polizia. Ma soprattutto, avevano un’aria e un’espressione del volto che non lasciavano presagire nulla di buono. In breve furono nel soggiorno dove, ancora seduti, li stavano aspettando sia Jean Claude che la giovane Julienne. Mentre i due si alzavano per i saluti di rito, François sentiva il cuore battergli all’impazzata. Soltanto adesso si rendeva conto dell’enorme ansia somatizzata nell’attesa di quell’arrivo. Cercava in ogni modo di nascondere la sua crescente irrequietezza, ma non dar a vedere quanto si sentisse confuso e agitato non era semplice.
In più, come se non bastasse, gli sguardi particolarmente taglienti dei due poliziotti non facevano che aumentare la tensione.
“Bene signor Demelle” esordì il commissario Renò nel silenzio più tombale.
 “Ci perdoni innanzitutto per l’intrusione… ma non c’era altro modo per…” dopodiché s’interruppe. Lo sguardo del collega si posò lentamente sul pavimento davanti a sé. Da minacciosi che erano sembrati nei primi istanti, i due poliziotti avevano assunto l’aria di due gattini impauriti. Cosa che rendeva la situazione ancor più febbricitante e paradossale.
“Non la porterò per le lunghe signor Demelle” continuò Renò, mentre François lo ascoltava con la massima attenzione.
 “Vede… nel pomeriggio, verso le 15.30, c’è stato un incidente aereo nello spazio tra la Corsica e la Sardegna. Le ricerche sono tuttora in corso per recuperare i resti nel tratto di mare al largo del faro dell’Isola dei Cavoli.”
François ebbe un flash.
“Non si conoscono ancora le cause del disastro, ma è certo che non ci sono superstiti.”
Il ragazzo si sentì raggelare. Un improvviso groppo in gola gl’impedì sulle prime di rispondere. Rimase immobile e rigido come un pezzo di legno, provando fatica anche a respirare.
 Cercò di deglutire il macigno che gli s’era formato in gola nel giro d’un istante, ma il tentativo gli risultò impossibile.
 “I suoi genitori erano su quel volo, vero?” aggiunse con un fil di voce il commissario Renò. Un impercettibile gesto del capo di François confermò. In un attimo tornò indietro con la memoria. I suoi genitori avevano prenotato quel volo circa un mese prima per una breve vacanza in Spagna. Erano anni che sua madre chiedeva di andarci e stavolta, approfittando dei dieci giorni di ferie del marito, era riuscita a organizzare il tanto agognato viaggio. François li avrebbe raggiunti nel weekend, con calma, dopodiché sarebbero tornati tutti quanti insieme a Parigi. François guardò Julienne. La fissò per alcuni istanti non sapendo cosa fare, né cosa dire, sconvolto. Nonostante il suo turbamento non ebbe difficoltà a intuire come Julienne avesse compreso per tempo il motivo di quella visita. La ragazza aveva sperato sino all’ultimo di sbagliarsi, continuando ripetutamente a non dare ascolto ai suoi oscuri presentimenti, ma la realtà dei fatti era ormai evidente. Il suo istinto aveva avuto ragione. Nonno Jean Claude, immobile sulla sedia, non riusciva ancora a credere alle sue orecchie. Né accettava che una tale tragedia potesse essere accaduta proprio a lui. Man mano che i secondi passavano, la sua anima annegava in un mare tempestoso di dolore e di ricordi dai cui neppure la ragione di uomo anziano e maturo l’avrebbe potuto trarre in salvo. Soltanto un’altra volta era riuscito a provare una simile fitta proprio lì, in pieno petto: in occasione della morte dell’adorata Paolette.
Prima mia moglie, ora mia figlia… qualche maledizione deve gravare sui Demelle, era l’unico pensiero che Jean Claude si ripeteva muovendo istericamente la gamba. Il commissario Renò attese che François ritrovasse la forza di parlare. Ma il ragazzo non riusciva a muoversi, era come paralizzato. Il suo sguardo si perdeva nel vuoto davanti a sé senza che nulla potesse riportarlo alla realtà. I suoni provenienti dall’esterno della casa arrivavano alle sue orecchie sempre più distorti.
In breve alcune grosse lacrime iniziarono a invadergli le pupille. Ogni cosa a portata di sguardo cominciò presto a divenire luccicante e sfocata. I suoi occhi reagivano come prismi di vetro in cui la luce non riusciva a filtrare. E man mano che le lacrime giungevano al colmo, sgorgando inarrestabili lungo le guance rese livide dallo shock, le sagome dei due poliziotti si sbiadivano rapidamente, sempre di più, confondendo i loro contorni e i loro colori con i restanti oggetti della stanza. François non riusciva a distinguere più nulla in maniera nitida e chiara.
 “Mi dispiace davvero signor Demelle…” concluse il commissario Renò, abbassando lo sguardo.
 Il ragazzo accennò appena con il capo, sforzandosi di deglutire. Rimase impietrito con gli occhi sbarrati e fissi davanti a sé. Le lacrime continuavano a fluire sempre più calde e inarrestabili, come gocce di lava che gli scavavano le guance.
 Provare a fermarle era inutile. Renò si sentì il cuore in gola. Diede un’occhiata in rapida successione prima a Jean Claude, poi ancora al ragazzo, infine a Julienne. Riusciva a percepire il loro immenso dolore come se fosse il suo, ma non era in grado di comprenderne il perché. In fondo, quelle persone non rappresentavano nulla per lui. Erano dei cittadini come tanti altri, mai visti prima, cui aveva comunicato un tragico evento, tutto qui. Il suo lavoro lo esponeva di continuo al dolore altrui.
 Perché allora stavolta era tutto più forte, più crudo? E anche così difficile da sopportare? Il maresciallo Peroche sembrava l’unico meno coinvolto dalla tragica notizia. Muoveva lo sguardo nervosamente cercando di non incrociare in alcun modo quello dei presenti. Era tutto così strano e singolare che quasi non gli sembrava di stare semplicemente facendo il suo lavoro.
“Abbiamo dovuto fare le opportune verifiche prima di chiamarla, signor François. Credo che i telegiornali stiano dando la notizia proprio in questi minuti” intervenne Peroche nel tentativo di fendere il gelo che trasudava dalla pelle dei Demelle. Julienne, dal canto suo, constatava con terrore quanto in realtà fosse la paura per il drammatico presagio avuto a spaventarla assai più della consapevolezza che i genitori di François avessero trovato una morte tanto inaspettata e crudele.
 “Sua madre e suo padre, signor Demelle, erano i soli passeggeri parigini presenti sul volo precipitato. E’ per questo che avevamo il compito d’informarla personalmente dell’accaduto.”
 Renò continuò a non ricevere risposta. François era ormai altrove. Lontano anni luce da quella stanza. Distante un’eternità da tutti e da tutto. Con i suoi pensieri e con i suoi ricordi. Con la sua anima. In compagnia di un dilaniante dolore in cui si stava annientando senza via di scampo.
 Il suo destino era cambiato, in pochi istanti.
 La sua vita era cambiata, e lui non sarebbe stato più lo stesso.
 Mai più.
 Adesso era solo.
 Solo.
 'Queste cose accadono agli altri…accadono agli altri… non a me... non a me…Non li ho neppure salutati…' si ripeteva ossessivamente François, incurante dei due poliziotti che toglievano il disturbo.
 
 

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