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Mario

Stasera pensavo a mio nonno.
Fuori in balcone, seduta sotto la volta stellata con le braccia poggiate sul tavolo e la testa abbandonata sopra di esse, mi sono sentita lui.
Ricordo come fosse ieri il mio sembiante di bimba, avvicinarsi a quel piccolo uomo dal cuore lacerato, mentre ubriaco, lasciava cadere la fronte tra le braccia incrociate, sopra la tovaglia “buona” del pranzo domenicale. Mia nonna lo aveva lasciato solo, ancora una volta, con tutte le sue umiliazioni.
Ricordo ancora che non si riteneva mai “abbastanza”, per nulla. Non si riteneva abbastanza forte da evitare di bere, abbastanza credente da trovare un senso alla gamba amputata che trascinava in giro, sorretta dalla sua collezione di bastoni da passeggio. Non si riteneva abbastanza padre da essere radice piantata al suolo per i suoi figli e nemmeno abbastanza marito da soddisfare le aspettative e la vitalità di sua moglie. Non abbastanza uomo, forse, da sentirsi libero di mandare tutto al diavolo e ricominciare da capo, partendo da lui.
Aspettava solo di morire. 
Come un ospite consapevole che la sua permanenza, alla lunga, può diventare pesante e mal tollerata, attende con ansia il treno, l'ultimo, che lo porti via.
L'unica persona che gli sarebbe mancata, ero io.
Ero io, quella nipote ancora molto lontana dal sapere quali sorprese agrodolci cela la vita, quegli occhi lucenti che lo fissavano silenziosi, mentre tra le rughe di quell'espressione assente, le sue pupille erano già due stelle troppo lontane da questa terra arida, troppo ingiusta per il suo cuore romantico.
Raggiunse il cielo una calda giornata estiva, troppo soleggiata per chiudere gli occhi al mondo, così.
Ricordo ancora il suo volto disteso e finalmente in pace, come chi, arrivato in largo anticipo alla stazione, stanco della snervante attesa, prende finalmente il suo posto per intraprendere l'unico viaggio che non necessita di biglietto di ritorno, quello verso casa.
“Ciao nonno” mi ritrovo a sussurrare, mentre lascio che le dita delle mani, affondino nella mia chioma corvina.
Per un attimo, così, abbandonata come una foglia secca che si accartoccia su se stessa, anch’ io mi ritrovo a domandarmi quali siano i lati di me dove ancora mi sento “inadatta” e quali siano i reali motivi di questa particolare “deformazione percettiva” che filtra alla mente, la mia immagine.
Mentre respiro in quell'antro buio e accogliente creato dalle mie mani, realizzo che ho gambe forti per potermi muovere nel mondo, sono intelligente e ho solo trent'anni. Il momento di prendere l'ultimo treno non è ancora giunto. Ho ancora giorni e giorni per nascere ad ogni alba e cercare di costruire un angolo di paradiso per questo cuore romantico, ultimo dono di un vecchio nonno, dagli occhi di cielo.
Mentre un brivido gelato mi oltrepassa e comprendo che l'unica persona che potrebbe riscaldarmi con una carezza o un abbraccio, non c'è, decido di rassegnarmi a credere che un buon “vin brulè” potrebbe forse lenire l'assenza.
Questa bevanda calda e speziata è un ricordo infantile rimasto fissato nella mia memoria, come una polaroid in bianco e nero.
Quando il vino sobbolle e gli aromi aggiunti sprigionano la loro essenza, ritrovo l'odore di mio nonno, dopo un pomeriggio al bar giocando a briscola in compagnia della sua pipa.
A volte mentre sorseggio questa calda carezza di cuore, tra il vapore che sprigiona e mi vela gli occhi, mi sembra di vederlo: quasi sorridente. In piedi senza bastone. 
Mi sembra di vederlo così, nitido. Quasi felice.

("A bocca piena" Neroveneziano © )

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