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Il vicolo

 

Quel pomeriggio era uscito con l’intento di fare due passi. La città era semi deserta, lungo la via Maestra punteggiata da numerose bancarelle, contenenti oggetti caduti in disuso e varie curiosità, si svolgeva il consueto mercatino delle pulci, come annunciavano i cartelli della segnaletica stradale posti ai vari ingressi della città; la terza domenica del mese, per l'appunto.

La giornata era cupa, il cielo minacciava pioggia. Aveva percorso pochi svogliati passi lungo la via, osservando distrattamente gli oggetti allineati sui banchi, quando il suo sguardo fu attratto da un vecchio ferro da stiro in ghisa, uno di quelli, che da bambino aveva visto usare alla nonna.

Ricordava infatti che quel vecchio ferro da stiro l’avevano acquistato insieme, lui e la nonna, da uno straccivendolo, scegliendolo tra i vari oggetti disseminati nel cortile. Quel cortile che con tutti quegli oggetti a terra, gli era apparso come un giardino delle meraviglie. Rammentava ancora, a distanza di molti anni, la figura scura di capelli coronata da un folto paio di baffi arricciati all'insù, dello straccivendolo. Aveva avuto paura della sua voce possente, perciò si era nascosto dietro le gonne della nonna.

Quel ricordo, s’inserì nella sua mente, provocandogli un’acuta fitta di nostalgia. Allungò il passo per rivedere l’abitazione della sua infanzia.

Il vicolo si apriva nella penombra, deserto come sempre. Dopo aver percorso pochi passi, la sensazione provocata dal selciato sconnesso, composto da ciottoli di fiume, lo aveva riportato di colpo indietro nel tempo. Era su quelle pietre che aveva consumato le sue scarpe giocando al pallone e, con il passare degli anni, proprio su quelle pietre aveva spento, con il tacco della scarpa, i suoi primi mozziconi di sigaretta.

Percorse il vicolo sino in fondo, dove, dopo l’aprirsi di un arco, s’immetteva in un grande cortile. Osservò i panni stesi alle finestre delle case immerse nel silenzio della giornata. Poi, come una sequenza cinematografica priva del sonoro, rivide se stesso bambino e i suoi compagni di gioco, correre nel cortile.

Si appoggiò per un istante al vecchio muro che sorreggeva l’arco, osservò con attenzione le pietre inserite tra i mattoni cercandone una rotonda più scura, poi la vide. Era lì, dietro a quel sasso, dove nascondeva i messaggi che si scambiavano, lui e Anita.

Pensò all’improvviso a lei, a quella bambina con qualche anno in più di lui, dove, una sera giocando a nascondino, insieme si erano nascosti all’ombra di un cespuglio. Nell’oscurità lei gli aveva detto: - Mi dai un bacio? – lui gliene aveva schioccato uno lieve sulla guancia, poi era fuggito via, avvampando di rossore.

Ebbe un istintivo movimento della mano verso quel sasso, voleva rimuoverlo, osservare se custodiva ancora segreti messaggi. Poi vide a terra una siringa, dalla cui trasparenza si delineava una sottile lama rossa. Con un moto di repulsione si voltò e riprese a camminare.

Osservò le nuove abitazioni, che nello sviluppo di un piano di recupero urbano, erano germogliate sulle vecchie e fatiscenti (ma tanto care alla sua memoria) dimore.

Aveva rivisto la porta della casa (la presenza del frammento del masso erratico incluso nel muro ne attestava l’esatta posizione) di quello strano personaggio che allora tutti chiamavano il maestro. Chiuso nella sua solitudine, si mormorava che in seguito ad un esaurimento nervoso avesse perso la ragione. I bambini del vicolo, immersi nella loro crudele innocenza, si divertivano per gioco a beffeggiarlo, sino a quando lui esplodendo, li rincorreva urlando improperi al loro indirizzo.

Salendo gli scalini di quei nuovi edifici, in un susseguirsi di scale, passaggi, balconate, archi grigi di cemento, muri di colore rosa, simili a quelli delle case liguri, vide il cortile di casa sua.

Era lì, dove con la pesante bicicletta del padre (ricordava stranamente la marca e il colore, era una Gerbi azzurra), aveva imparato a sollevarsi in equilibrio su quel biciclo, in uno sfavillio di raggi e cromature, mentre l’aria gli carezzava dolcemente il viso.

Chiuse per un istante gli occhi, e nel silenzio del cortile, sentì l’eco della voce di sua madre che lo sollecitava a consumare la merenda pomeridiana. Un sapore di pane imburrato e zucchero gli salì alla gola accompagnato dall’acquolina in bocca.

Scese nel vicolo, e si diresse verso le persone che ora affollavano via Piol. Calpestando un ciottolo più grosso degli altri, provò una fitta al piede, pensò che nulla era cambiato in quel vicolo, da allora ad oggi. Poi si ricordò di via Garavella, dove lui aveva abitato nei primi anni della sua vita. Associava a questa via, l’immagine di una vecchia foto in bianco e nero un po’ sbiadita.

Era il suo primo compleanno, lui sulla destra dell’immagine, protendeva la mano verso la torta posata sul tavolo, con al centro quell’unica candelina. Sul suo viso appariva un’espressione un po’ sorpresa, rivolta verso il fotografo. Sul fondo della stanza, dietro al tavolo, c’erano i suoi genitori, la nonna, e il mobile buffet che lo aveva accompagnato negli anni della sua infanzia e ora, investito dal lampo del flash, brillava in uno sfavillio di riflessi.

A volte, nella sua memoria, confondeva quell’immagine con un’altra dove (lui doveva avere un anno o poco meno), sua madre lo sollevava sulle braccia al centro di quella via e dove, in alto sulla destra della foto, s'intravedeva la collina di Rivoli avvolta da una leggera foschia, che velava i rilievi del castello.

Mosso dalla curiosità, si chiese quante strade erano rimaste, in città, con la loro pavimentazione originale, in pietre di fiume. Entrò in un bar, seduto ad un tavolino mentre consumava un caffè, sfogliò lo stradario della città, tracciò su di un foglio di carta una serie di linee in corrispondenza delle vie acciottolate.

Ne contò circa una decina.

Osservò che formavano, nel loro tracciato, delle curiose curve, non riusciva però dare a quell’insieme una forma riconoscibile. Tracciò due linee parallele partendo da via don Peretti sino ad incrociare via Piol; osservò lo strano poligono che ne era risultato, sembrava una sacca da golf dalla quale spuntavano due manici d’ombrello ed un bastone.

Soddisfatto sorrise, poi appallottolò il foglio gettandolo nel cestino.

Sospirò pensando al numero infinito di pietre che formavano quelle vie, all’erba che vi era cresciuta attorno, nascondendone alcune alla vista, quasi volerne cancellare l’esistenza. Pensò agli uomini che con la fatica del loro lavoro, avevano posato quelle pietre l’una a fianco dell’altra, su di un letto di sabbia, accostandole, verificandone la loro uniformità con il colpo d’occhio del mestiere, infine pressandole con un pesante maglio di legno. Pensò a quegli uomini lontani, al loro senso d’appartenenza ad una società dai bisogni collettivi, alle loro speranze ed ai loro sogni.

Prima o poi, un manto d’asfalto avrebbe ricoperto il loro operato cancellandolo via, come lo scorrere del tempo aveva cancellato le loro vite. Di colpo l’invase una profonda malinconia, una tristezza pacata dovuta all’umore del momento e alla nostalgia che portava in corpo.

Si infilò in una cabina telefonica (una delle poche rimaste), compose un numero e ascoltò il segnale di tono che dava la linea libera. Lasciò suonare a lungo il telefono, era ormai rassegnato ad agganciare, quando dalla cornetta udì la voce di lei, squillante.

Allora, come spazzata via da un improvviso colpo di vento, la nostalgia gli cadde. Si sentì rinfrancato, il calore riprese a scaldare il suo corpo, sorrise, pensando che su questa terra ognuno aveva diritto ad un attimo di felicità.

 

 

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