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Ti dirò cos''è la bellezza - seconda parte

4. Serata d'autunno

Il semaforo, uno degli innumerevoli che costellavano la strada fra la sua casa e l'ufficio, era eterno, non si schiodava dal rosso fisso. Francesco si guardava in giro, prigioniero, circondato da una muraglia di strutture di ferraglia rombanti, in attesa di scattare, come fossero purosangue alla partenza del Derby. Era il secolo dell'automobile, si diceva, ma, almeno nelle grandi città, l'automobile aveva ormai perso ogni dignità di mezzo moderno di locomozione per divenire, appunto, semplice ferraglia, priva di personalità e appeal. Magari quelle stesse automobili, che in città si spostavano a scatti come se avessero il parkinson, sulle strade di montagna assumevano ancora la parvenza di possenti destrieri che valicavano montagne e gole profonde con incedere fluido ed elegante.
Purtroppo, però, Francesco viveva in una metropoli e, sia che prendesse la sua auto, sia che optasse per l'autobus, il tram o la metropolitana, si sentiva sempre inscatolato in una cella di ferro. Ed era anche ben conscio che respirava, sempre e comunque, aria malsana, neanche vivesse, oggi, in una delle antiche paludi bonificate dal ventennale regime di pessima memoria.
In quel plumbeo autunno, tutte queste sensazioni si dilatavano intorno a lui, rendendo la giornata lunga, interminabile, estenuante.
Eppure Francesco aveva amato l'autunno, quando da giovane trascorreva i mesi prima di Natale a studiare, talvolta con un compagno d'università, nella casa di montagna che i genitori affittavano di anno in anno per tutto il periodo ottobre- marzo. L'autunno si esprimeva lì con mille colori, densi come le pennellate di van Gogh, e dava alla natura un senso di maturità piena: non più delicata e fresca come in primavera, ma forte, vibrante e vitale, come fosse un uomo di 40 anni; come avrebbe dovuto essere oggi lui. Purtroppo in città, ormai, l'autunno era una non-stagione, così come le altre, imprigionate tutte in un contesto del tutto antitetico all'armonia del cosmo.
Così rimuginando, Francesco, alle 8 di mattina, saltellava di semaforo in semaforo verso i luminosi, moderni ed asettici uffici dell'Agenzia.
Alla stessa ora, Sara scendeva dall'autobus, a cento metri dall'appartamento dei Marangoni. Vi mancava da una settimana, da quando la signora Marangoni le aveva detto che, per favorire la convalescenza del marito, sarebbero andati per una settimana a Salsomaggiore, uno dei loro luoghi preferiti per passare periodi di ristoro. Sara ne aveva approfittato per tornare in Veneto a rivedere la famiglia, che intanto si era  arricchita di un bel bambino roseo e paffuto, figlio della sorella.
Quando tornava a Portogruaro, Sara veniva assalita da pensieri contradditori. Certo non vi era la frenesia della città, certo era facile spostarsi da un luogo all'altro, certo il prossimo era davvero prossimo, perché inevitabilmente ci si ritrovava tutti nella piazza principale durante il mercato settimanale od il sabato in mattinata. Ma era anche vero che gli spazi erano ristretti a pochi vie e qualche piazzale, che non c'era modo di sfuggire al controllo della comunità tutta, e che, in generale, le sorprese, di qualsiasi tipo, erano rare. Milano era come una foresta, semibuia, densa di rumori e pericoli ma anche eccitante e piena d'imprevisti, talvolta positivi; Portogruaro era come una silenziosa radura circondata da bassi cespugli, di cui ben presto si conoscevano ogni ciuffo d'erba ed ogni pietra ed il cui orizzonte non celava sorprese nemmeno in lontananza.
A Milano, Sara non era particolarmente felice, ma pensava che a Portogruaro non lo sarebbe stata di più.
Entrò nel bar per farsi un cappuccino con la brioche, che al mattino era sempre fresca e croccante e rimase in piedi, davanti al bancone, guardando il viavai di gente, tante facce già viste di persone sconosciute.
Poi, all'improvviso, la faccia di una persona conosciuta, anche se non se ne ricordava più il nome, qualcosa con la effe, forse Federico.
"Buon giorno, Sara", lui il nome lo ricordava.
"Buon giorno, signore", rispose lei, imbarazzata.
"Suvvia, non si ricorda? Mi chiamo Francesco, Francesco Giussani, ai suoi ordini!".
"Mi scusi, sa, avevo in mente Federico, ma non ne ero sicura".
"Beh, anche Federico è un nome d'origine germanica, come Francesco. Uno significa "ricco di pace", l'altro "libero". Lei quale sceglierebbe?".
"Non so, "ricco di pace" suona bene, ma mi dà l'impressione che anche i cadaveri possano essere considerati tali, mentre "libero" lascia spazio ad ogni avventura; sceglierei "libero".
"Brava, è proprio il mio nome".
Intanto Francesco aveva fatto segno ad Emilio che voleva lo stesso di Sara; lei a sua volta gli domandò:
"Visto che sa tutto sui nomi, il mio, Sara, cosa significa?"
"Facile, è un nome d'origine ebraica, forse si ricorda di Sara, moglie di Abramo. E significa "principessa". Lei è nobile, non lo sapeva?"
"No, non lo sapevo; ed in più, pur essendo nobile, devo scappare a prendere servizio, che sono già in ritardo. Arrivederci".
"Senta, a proposito di arrivederci... Le posso offrire un tè, qui, stasera, alle 5 e mezza?".
Sara rimase di stucco a udire questa proposta. Di colpo sentì mille pensieri ed interrogativi affastellarsi nella mente, ma non c'era tempo di vagliarli.
"Ma.., sì.., certo.., va bene, alle 5 e mezzo".
"Grazie, e allora davvero arrivederci".
"Sì, arrivederci".
Se Sara era rimasta di stucco, Francesco, mentre pagava la consumazione, era allibito. Ma quando mai aveva voluto, pensato, desiderato invitare per un tè quella graziosa, ma per il resto del tutto estranea, signora. Un tè!!! Neanche fossero al Ritz di Londra! E poi qui, al bar, con tutti i colleghi che andavano e venivano per farsi un drink o flirtare con la segretaria. La sua bocca aveva pronunciato parole che certamente non erano sue, erano di qualcun altro, che in qualche modo aveva preso il controllo delle corde vocali; forse il famoso Super-Io freudiano, o l'inconscio personale teorizzato da Jung.
Stava di fatto che ormai bisognava ballare e pazienza, un tè non aveva mai fatto male a nessuno.
Sara non pensava a niente. Era ben conscia che era tutto un errore e sapeva che tutto si sarebbe risolto da sé. E poi un tè non aveva mai fatto male a nessuno.
Arrivato in ufficio e più tranquillo, Francesco cercava di analizzare freddamente l'accaduto. Doveva essere successo qualcosa che aveva tirato fuori dal suo essere quelle parole d'invito; ma che cosa? Ripassò, per quanto ricordava, il breve dialogo, e pensò di aver capito: quella battuta sulla pace dei cadaveri dimostrava che la signora Sara era spiritosa e quindi intelligente; in più, quei brevi colloqui con lei erano sempre stati piacevoli, piani, senza grida, senza aggressività, come amava lui. Il fatto che facesse la domestica a ore non significava nulla, poteva anche essere una laureata in fisica nucleare che non trovava lavoro. Lo avrebbe scoperto presto.
Alle 5 e mezzo quasi si scontrarono all'entrata del bar.
"Lei è proprio puntualissima", disse Francesco, " non sa che le signore dovrebbero farsi desiderare un po'?".
"Può darsi, ma il mio carattere è questo, sono puntuale e detesto i ritardatari".
"Allora mi è andata bene". Poi Francesco aggiunse:
"Senta, Sara, per quella proposta per il tè, pensavo.."
Lei lo interruppe subito:
"Non si preoccupi, pareva anche a me un'idea balzana, però La ringrazio lo stesso".
"Ma no, cosa ha capito". Francesco si scostò per far passare una persona che voleva entrare in bar. "Volevo dire.., se non ha altri impegni stasera, magari accetterebbe, invece che il tè, una cena in riva al lago di Como. E' una bella serata, è presto e conosco una simpatica trattoria dove si mangia bene".
"Ma Lei ha indosso gli stivali delle sette leghe? Al mattino mi offre il tè, al pomeriggio la cena, e stasera?!"
"Ho una collezione di rarissime stampe erotiche orientali, forse...Sto scherzando, eh!".
Francesco alzò le braccia, come per arrendersi.
"Anzi, chiarisco subito, stasera non farò alcuna avance"
"Non so bene cosa siano queste avans, ma mi fido, vada per la cena, basta non fare troppo tardi, perché domani alle sei e mezza devo alzarmi".
Così partirono, a bordo della bella berlina Volvo dai sedili in pelle chiara. Sara in fondo era più tranquilla, ora, che Francesco aveva promesso, almeno per quella serata, di non creare implicazioni notturne. Nei film americani vedeva che alla fine della serata, lui accompagnava lei a casa e c'era sempre quel momento d'imbarazzo, o finto imbarazzo, in cui lui pensava di baciare lei, lei non sapeva come fare a dire no senza offendere lui, oppure viceversa.
Anche lui era più tranquillo, almeno per quella serata non avrebbe dovuto fare la parte del Don Giovanni, che proprio non era nelle sue corde.
Mentre correvano verso Como, parlando del tempo, o degli ultimi fatti di cronaca nera, Francesco aveva anche modo di valutare l'aspetto di Sara, a cui fino a quel  momento non aveva fatto molto caso.
Gli occhi azzurri li aveva già visti da vicino, freschi e luminosi, gli erano subito piaciuti per la sensazione di franchezza che emanavano. Il loro colore contrastava piacevolmente col biondo miele dei capelli corti.
Più sotto, un naso, come dire, importante, di carattere, che sovrastava una bocca con labbra grandi, piene, ben disegnate, che custodivano una fila di bianchi denti regolari.
Non era alta, Sara, circa uno e sessanta, per nulla grassa, ma comunque ben messa, un seno alto, difficile da nascondere, caviglie forti anche se non grosse, alla fine di gambe che scendevano armoniosamente dalla bella rotondità del sedere.
Il tutto vestito da una pelle chiara, rosea, con, sulle braccia, una finissima peluria chiara, visibile solo in controluce. Insomma, un bel corpo che faceva da colonna ad un viso intrigante.
Naturalmente anche Sara, mentre parlava del film che aveva appena visto in tv, gettava occhiate verso il guidatore. Piuttosto alto, almeno uno e ottanta, leggermente stempiato, capelli castani corti, tagliati da poco, gli occhi verdi o grigioverdi, con grandi sopraciglia. Naso regolare, bocca sottile, con il labbro superiore leggermente sporgente, come hanno i bambini imbronciati, ma con rughe d'espressione laterali che facevano pensare che sorridesse spesso.
Magro, con bel portamento. Insomma, in linea di massima, un uomo non particolarmente bello, ma elegante ed interessante. Forse la cosa di lui che più le piaceva era la voce, calda, calma, carezzevole.
La serata fu come lui se l'era immaginata e lei aveva sperato. La bella terrazza coperta sul lago fece da cornice alla conversazione, che portò, a poco a poco, i due a raccontarsi alcuni fatti della loro vita. Così lui seppe che lei era divorziata, lei che lui era vedovo ed ancora addolorato, specie per la perdita della figlia Patty. Lei seppe che lui aveva molto viaggiato, che parlava abbastanza bene quattro lingue, che la sua famiglia era benestante ma non ricca, perché suo padre e suo nonno avevano sempre lavorato come dipendenti d'azienda, sia pure ad alti livelli dirigenziali, che lui amava giocare a golf e a tennis, ma che lo faceva raramente. Lui seppe che lei aveva fatto solo la quinta elementare, che aveva lavorato per anni come operaia agricola - e lei gli mostrò le mani già abbastanza consumate da quel duro lavoro - e che negli ultimi due anni da domestica, in casa Marangoni, aveva visto che esistevano mondi ben diversi dal suo, in cui valevano comportamenti e formalità di cui lei non aveva mai sentito parlare né immaginato. Con parenti e amici, anche a Milano, parlava di solito il dialetto e  l'italiano l'aveva imparato principalmente tramite la radio e la televisione.
"Ma sa che parla davvero bene l'italiano", disse Francesco, "ha un vocabolario persino più ricco del mio, usa talvolta parole più precise, non avrei mai pensato che non avesse fatto almeno il liceo".
"Se si parla dei casi della vita, del sentimento delle persone, della quotidianità, della natura, allora me la cavo. Ma se mi chiede di Napoleone, non so nemmeno chi sia, se mi parla della Romania, non so nemmeno dove sia".
"Già, la cultura. Io la vedo così: quando nasciamo, la cultura nella testa di ognuno è uguale a zero, mentre invece fin dall'inizio v'è differenza nel potenziale intellettivo, voglio dire, nel grado d'intelligenza. Diciamo che ognuno di noi ha nel cervello uno spazio che riempie a mano a mano con le conoscenze, le esperienze, gli studi che fa: lo spazio della cultura. E' chiaro che io e Lei lo abbiamo riempito di cose diverse, io di storia , geografia, arte, matematica, economia, lei di natura, di animali, di tradizioni agricole, di conoscenza delle malattie, di parole giuste per esprimere compassione e partecipazione, e così via. Mica detto che la mia raccolta sia più interessante e utile della sua per vivere nella società e per essere, non dico felici, ma almeno sereni." S'interruppe. "Mi scusi, forse la sto annoiando con questi discorsi?".
"Ma no, per niente, continui, per favore".
"Per quanto riguarda l'intelligenza, non credo che Lei abbia da invidiare nessuno, anzi; in più, mi sembra che abbia il merito di non aver inquinato l'intelligenza con la furbizia, che quasi sempre, come la mala erba, prende il sopravvento sulla intelligenza e rende gli individui subdoli e inaffidabili."
"Sarà come dice Lei. Ma quando mi capita di ascoltare le conversazioni degli ospiti di casa Marangoni, non capisco assolutamente nulla e mi sembra di essere un pesce fuor d'acqua o di star servendo il tè a dei marziani"
"Le sembro un marziano?"
"No", disse Sara, con tono convinto, "con Lei sto bene, ma bisogna vedere quanto può durare questo tipo di conversazione".
"Quanto vogliamo noi", replicò Francesco."Lei può aprire una porta sul mio mondo, io una sul suo, e ognuno di noi trovare interessante ciò che scoprirà. L'importante è farlo senza imposizioni, con calma e vera curiosità. Secondo me c'è solo una cosa che bisogna sforzarsi ad imparare, ed è vedere ed apprezzare la bellezza, in tutti i suoi aspetti, sia quella dell'animo, sia quella delle cose. Credo che per questo ci serva sempre una guida, che può essere la scuola, la famiglia o gli amici"
"Perché è così importante la bellezza?", chiese Sara, incuriosita.
"Questo è un discorso complicato e troppo serio, Le dispiace se lo rimandiamo alla prossima volta?".
"Lei pensa che ci sarà una prossima volta?", chiese Sara, mentre gli dava le indicazioni per arrivare a casa sua attraverso le vie buie di Cinisello Balsamo.
Francesco non rispose. Seguì le indicazioni, a destra, a sinistra, poi la seconda a destra; si fermò davanti al portone segnalato da Sara, l'entrata di un tipico palazzotto grigio di periferia.
Spenta l'auto, si voltò verso Sara e disse:
"Per me è stata una piacevole serata, e ho lasciato apposta senza risposta la sua domanda sulla bellezza. Quindi dobbiamo per forza rivederci, non trova?".
"Sì, certo, se non so cos'è la bellezza, non riesco più a vivere", disse Sara, ridendo."Combineremo un giorno al bar".
"Va bene, però mi dia il suo numero di telefono, in modo che possa far vedere agli amici che anch'io ho cuccato".
"Mi dispiace, non ho telefono. Mi dia Lei il suo, che ho anch'io delle amiche curiose".
Dopo un attimo d'incertezza, Francesco le scrisse su un pezzo di carta i numeri telefonici di casa e dell'ufficio, dicendole:
"Mi dice almeno il suo cognome?".
"Oh Dio, non gliel'ho detto? Zanon, Sara Zanon, molto veneto".
"Ecco, ora non mi scappa più"
"A meno che io non Le abbia fatto un bidon, dandole quel cognome Zanon!"
"Non credo. Grazie, Sara. Buona notte e arrivederci, presto spero".
"Grazie a lei, Francesco, E' stata anche per me una bella e insolita serata. Buona notte".
Si diedero la mano, poi Sara scese alla vettura e aprì il portone. Francesco attese che lei lo ebbe richiuso dietro di sé, e poi ripartì, sentendosi piacevolmente rilassato.

 

5. Le svolte dei destini

Nei giorni successivi, Francesco scese più volte al bar, ma non incontrò mai Sara; la vide solo un paio di volte, da lontano, che entrava o usciva dal portone dei Marangoni. Non se ne preoccupò, sapeva che prima o dopo si sarebbero incrociati al bar. Inoltre era oberato di lavoro ed aveva altri pensieri per la mente.
Però, nelle settimane successive, non solo non la incrociò al bar, ma nemmeno la scorse nei paraggi, e la cosa gli dispiacque, aveva voglia di passare un'altra serata piacevole con quella donna così diversa dalle sue conoscenze abituali. Cominciava a sperare in una telefonata, ma ci credeva poco.
Non poteva immaginare che Sara era lontana, ritornata al suo paese, dopo essersi licenziata dal lavoro presso i Marangoni e disdetto l'appartamentino di Cinisello Balsamo. La sua vita, infatti, aveva preso improvvisamente una piega imprevista.
Laura, la sorella di Sara, fin da pochi giorni dopo il parto, aveva dato segni di soffrire di depressione post-partum, con pianti frequenti, crisi d'ansia, tristezza inspiegabile. Tutti avevano sperato che, come capita nella maggior parte dei casi, nel giro di un paio di settimane, la crisi fosse superata. Invece non era stato così, Il medico aveva consigliato una cura con antidepressivi e di conseguenza era stato interrotto l'allattamento del bimbo. Parenti ed amici si erano attivati per dare una mano, specie con il neonato Giovanni, ma i tempi si allungavano e tutti erano in qualche modo impegnati con il loro lavoro e la loro famiglia. Sara perciò prese la drastica decisione di tornare a Portogruaro, per stare vicino alla sorella e prendersi cura, insieme a lei, del bambino. E proprio non le passò per la mente di avvertire Francesco, in quel momento l'ultimo dei suoi pensieri. Si trasferì armi e bagagli in casa della sorella, avvertì parenti e amici d'avvertirla se si fosse presentata l'occasione di un lavoro part-time, meglio se al mattino, - doveva pur guadagnare qualche soldo - ed incominciò una nuova vita, in attesa che la sorella guarisse del tutto. Le avevano detto che poteva volerci anche un anno.
La nuova vita era abbastanza noiosa, lunghe chiacchierate con la sorella, badare al bimbo che piangeva spesso per continue colichette, ripagare l'ospitalità della sorella stirando e facendo da mangiare. Qualche visita ai parenti era l'unico svago. Poi un giorno incrociò, sul "liston", che sarebbe la via principale della cittadina, il suo ex, Sante.
"Ciao, Saretta, come stai?", disse Sante, avvicinandosi.
"Bene, Sante", rispose Sara.
"Ho sentito che sei tornata per rimanere, è vero?".
"Sto dando una mano a Laura, forse sai che ha avuto un bimbo".
"Sì, lo so; mi hanno detto anche che non sta tanto bene".
"Sì, un po' di stress da parto, passerà presto".
"Poi tu che fai, torni a Milano?".
"Vedremo, penso di sì".
"A me ci pensi mai?" chiese Sante, che aveva ben compreso che tesoro aveva avuto fra le mani e perso malamente.
"Perché dovrei? E' storia passata e finita; immagino che avrai già trovato un'altra cuoca e stiratrice".
"Non ho trovato nessuno, perché a te voglio ancora bene. Forse ho sbagliato a lasciarti spesso sola in casa, a passare più tempo con gli amici che con te, ma la lezione è stata dura e credo d'aver imparato".
""Forse ho sbagliato..., credo d'aver imparato..." Non ne sei sicuro nemmeno tu. E poi non si tratta tanto d'imparare, si tratta di amare e rispettare, e tu né mi ami, né mi rispetti".
"Potremo riprovare; non ci sono qui altre donne come te, lo so, me ne sono reso conto e proprio per questo hai tutto il mio rispetto; quanto ad amare, forse non sono bravo a mostrarlo, ma io ti penso spesso e ti desidero ancora oggi come sei anni fa, quando abbiamo fatto l'amore per la prima volta".
"Il problema, Sante, è che sono io che non ti amo più. Tu e mio marito avete deluso ogni mia speranza d'amore ed oggi non ci credo più, all'amore. Degli uomini posso fare a meno, ma mi pesa molto il non avere figli a cui dare tutta la tenerezza che sento dentro e che non so a chi offrire".
"Dammi una possibilità. Non ti chiedo di metterti di nuovo con me, ma almeno usciamo qualche volta insieme. Se sono cambiato e se una volta ti sono piaciuto, forse potrò piacerti di nuovo. E di figli sento anch'io la mancanza, ma, sai, non abbiamo tanto tempo davanti a noi, Saretta".
"La gente parlerebbe, non crederebbe a semplici uscite in amicizia e mi ritroverei invischiata nuovamente. Meglio di no, Sante".
"Non mi arrendo facilmente, Sara, vedrai che ti convincerò", disse Sante, con tono diverso, quasi minaccioso. Poi salutò e se andò.
Sara rimase un attimo immobile, guardando quell'omone di poco più di quarant'anni che si allontanava, con i capelli brizzolati tutti arruffati e l'andatura nervosa e pesante.
Non si può tornare indietro, pensava, anche se è davvero troppo presto per rinunciare ad avere una vita normale di coppia. Per un attimo pensò anche a come fosse diverso rispetto a Sante quel signore di Milano, Francesco. E a che maleducata era stata a non dirgli niente del suo ritorno a Portogruaro. Poi si riscosse e continuò per la strada verso la casa della sorella.
A Milano, Francesco era alle prese con un dilemma ben diverso. Il direttore generale dell'agenzia, il suo capo, insomma, aveva dato le dimissioni, perché assunto con un più lauto stipendio da un'agenzia concorrente di Torino. Francesco sapeva bene che il più papabile, per quella poltrona all'interno dell'agenzia, era lui stesso e temeva che gliela offrissero. Sì, temeva, perchè Francesco sapeva che il compito di direttore generale era ben diverso da quello che piaceva a lui. Il DG doveva gestire operativamente l'agenzia, fare i bilanci, licenziare o assumere personale, rappresentare l'agenzia alle riunioni di settore piuttosto che ai convegni internazionali e altri compiti similari, ma aveva ben poco a che fare con prodotti, clienti, campagne pubblicitarie, comunicazione, ricerche, insomma con il cuore dell'attività dell'agenzia stessa, cioè quel tipo di lavoro che invece Francesco amava. Però, se un dirigente rifiuta una promozione così significativa ed importante, si brucia per sempre, non solo in seno all'agenzia, ma anche nei confronti delle aziende concorrenti. Appare come un dirigente senza coraggio, che ha paura di responsabilità crescenti, e non, invece, come un dirigente innamorato di un certo tipo di lavoro e non di un altro. Ecco il dilemma di Francesco. Dopo aver saputo delle dimissioni del DG, si arrovellò per un giorno ed una notte interi, poi prese una decisione: doveva parlarne con l'amico DG dimissionario. Così il giorno dopo bussò alla sua porta.
"Scusa, Dario, hai un minuto?".
"Certo, Francesco, entra, sono subito da te".
Dopo aver finito di firmare delle carte, Dario gli chiese:
"Dimmi, c'è qualche problema?".
"Non so, lo voglio chiedere a te".
"Cioè?".
"Vedi, il fatto che tu te ne vada mi dispiace per due motivi. Primo, perché con te ho sempre lavorato bene, con grande soddisfazione, credo reciproca. Secondo, perché qualcuno mi dice che al tuo posto potrei essere designato io".
"Sì, è più che probabile. Ma perché dovrebbe dispiacerti?".
"Perché non mi piace il lavoro di DG. Bisogna esserci tagliati a discutere con gli azionisti nei consigli d'amministrazione, a tagliare teste, ad aggiustare bilanci eccetera. Io non ci sono tagliato, a me piace avere contatto diretto con problemi di comunicazione e con i clienti. Se ci fosse da prendere la direzione generale di questo tipo di operatività, sarei ben felice, ma la parte prettamente amministrativa e di rappresentanza proprio non mi piace.
Però, se mi venisse offerto, sarebbe difficile dire di no e probabilmente non farei felice né me stesso né l'azienda."
"Capisco, ti capisco benissimo. Un po' come te la pensavo anch'io, quando ho accettato quest'incarico. Ma non in modo così drastico come fai tu. Cosa pensi di fare?".
"Una soluzione per me potrebbe essere di andare via anch'io, ad assumere una posizione, più o meno analoga a quella che ho qui ora, in un'altra agenzia. Penso che troverei facilmente un posto".
"Sì, lo penso anch'io. Ma sarebbe una grossa perdita per questa agenzia, tu sei davvero bravo. Il presidente mi ha chiesto un parere su come sostituirmi, ma è ovvio che anche lui pensa a te. Se sei d'accordo, io potrei proporgli una soluzione di questo tipo: nominare te direttore generale operativo business, e assumere un direttore generale amministrativo. Tutti e due rispondereste alla presidenza.
Ci sarebbe forse un maggior costo per l'agenzia, ma non così elevato. Che ne pensi?".
"Sarebbe formidabile e molto stimolante per me. Lo credi possibile?".
"Ci posso provare".
"Grazie, Dario".
"Alla peggio verrai a lavorare con me!".
"A Torino? Preferirei di no".
"Ok, ti farò sapere".
"Ciao, Dario, grazie ancora". Così dicendo, Francesco usci dall'ufficio rinfrancato.
In poche settimane, le cose si aggiustarono come aveva suggerito Dario. Francesco, con la promozione, si ritrovò soddisfatto ma ancora più oberato di lavoro. Nei suoi pensieri sembrava non esserci più posto per Sara.

                                                                             (continua)

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