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La scomparsa

Primo capitolo
 
La scomparsa
 
Sebbene fossero passati molti anni di quel giorno ricordava ogni piccolo particolare. Aveva studiato, fatto sacrifici impegnandosi a fondo per giungere a quel traguardo. Le memorie, quella mattina, s’erano concretate improvvisamente con forza, avevano preso spazio nella mente come nuvole che mosaicano un cielo terso. Elena Ancis sedeva davanti al portatile del suo ufficio di facoltà e il pensiero di quel ricordo, mai obliato, la fece sorridere con nostalgia. Quella reminiscenza fu percepita come un evidente segno che avrebbe in qualche modo cambiato il corso della sua vita. 

 

E nell’avviare il computer provò un lieve ma insistente fremito che la riportò proprio a quel giorno: ”Era nella biblioteca di Newberry a 

Chicago nella sala testi antichi. Si trovava lì mandata dall’università bolognese per avviare una ricerca storico-filologica su un manoscritto del 1702 sul popolo Maya. Ricordava nitidamente gli odori, le increspature, la fragilità della carta e il flusso emozionale che l’aveva travolta nel momento in cui se lo era ritrovato tra le mani. Poter decifrare e studiare profondamente ciò che il sacerdote spagnolo Francisco Ximenèz aveva ricopiato su quei fogli, traducendolo direttamente dalla lingua maya, la rendeva entusiasta, eccitata. Sapeva bene, grazie alle sue conoscenze filologiche, che le storie, le tracce e i segni che si riportavano su quel documento, diviso in quattro tomi, erano incerte, lacunose e, per alcuni passaggi persino poco attendibili, ma ciononostante provava un’indescrivibile frenesia, originata ovviamente dalla passione per questo ambito scientifico. Più s’addentrava in quei segni, a volte piuttosto enigmatici, e più il suo bisogno di capire aumentava esponenzialmente. Le sembrava d’essere un detective cui era stato assegnato un’indagine. Aveva la netta sensazione che la ricerca che doveva compiere su quel testo così ricolmo di storia l’avrebbe fatta crescere professionalmente e da questa consapevolezza si rendeva conto altresì che quel manoscritto riportava in sé voci, testimonianze di una civiltà che era ormai scomparsa da centinaia d’anni e sulla quale non aveva mai tenuto celato il suo viscerale interesse. Quindi, avutone l’opportunità, doveva ricavarne massimo profitto specialistico …” . All’improvviso, quel suo ricordo s’infranse su uno squillo potente  di telefono. Erano le 8.30 di una fresca mattina bolognese. La città aveva riaperto gli occhi pulsando in tutte le proprie attività.

- Pronto…- esplose nel silenzio dell’ufficio.

- Elena…- una voce maschile.

- Sì…Herman…-

- Ci dobbiamo vedere assolutamente. Ho bisogno di parlarti su una questione importante…- disse lui senza molte manfrine.

- Di cosa…Non puoi anticiparmi qualcosa…- Era il suo migliore amico. Un uomo piuttosto robusto, sulla cinquantina, non molto alto ma dall’aspetto signorile, di carnagione olivastra, capelli sale e pepe raccolti in una coda e un viso da bonaccione. Era giunto in Italia per studio lasciando il Guatemala all’età di vent’anni. S’era laureato con il massimo dei voti in Antropologia Culturale diventando in seguito uno dei maggiori esperti del settore.

- No. Preferisco parlartene di persona. Ho importanti rivelazioni da condividere con te. Ho bisogno del tue parere…- e sottolineò l’ultima parte dell’asserzione con una risatina quasi isterica, come se fosse nervoso. Elena comprese subito che l’amico era molto preoccupato.

- Herman…Dammi un’ora e ti raggiungo…Dove? –.

- Ora vado a casa…T’aspetto lì…- rispose lui interrompendo la comunicazione. Quella breve telefonata la lasciò sorpresa. Raccogliendo la borsa, appoggiata sulla sedia che aveva alle  spalle, guadagnò l’uscita. Non appena varcò il cancello dell’università fu travolta da un fascio di tiepida luce solare che, colpendola con una lieve inclinazione dall’alto, illuminò la chioma bionda dei suoi capelli ondulati, che s’appoggiavano sulle spalle come un velo di seta. Raggiungendo l’auto, parcheggiata a qualche isolato, riportò l’attenzione sulla breve conversazione telefonica. Il tono che l’amico aveva usato presupponeva qualcosa di poco chiaro. Ed ora, che ci pensava bene, n’era convinta. Non la convinceva l’ora. Conoscendolo, non l’avrebbe mai chiamata ad un simile orario se la questione non fosse stata grave, anche perché era sua consuetudine lavorare fino a notte inoltrata e svegliarsi così presto gli restava pressoché impossibile…e il fatto che fosse già in piedi la insospettii non poco. Questa sua perplessità prendeva ancor più consistenza se non fosse altro per il fatto che la loro amicizia avesse fondamenta ben solide e quindi conosceva bene le sue abitudini. Percorse la strada per arrivare alla casa di Herman in una mezz’ora abbondante. Lo studioso abitava in un piccolo appartamento al secondo piano di un edificio di vecchia costruzione. Elena non perse tempo. Dopo aver parcheggiato l’auto, s’involò nell’ampio androne, prese l’ascensore e, non appena lo stesso giunse al piano, aprendo le antine, notò immediatamente qualcosa di strano. Dalla porta dell’appartamento fuoriusciva una sottile lama di luce che illuminava soffusamente parte del pianerottolo, quasi fosse uno di quei fasci laser che sono preludio d’energia ad una serata in discoteca. Quel particolare le fece intuire che la porta era già stata aperta. Mosse qualche passo in quella direzione, voltò istintivamente il viso verso destra attirata da uno scricchiolio, si bloccò, s’irrigidii e, sospirando con ansia, s’augurò di non vedere nessuno. Solo penombra e la rampa delle scale che portava al piano inferiore. Riportando lo sguardo su quel fascio avanzò ulteriormente e, benché non fosse la prima volta che oltrepassava quell’uscio, si costrinse di restare calma, concentrata e di focalizzare l’attenzione su ciò che stava facendo, anche perché quell’ingresso così aperto non prometteva nulla di buono. Temeva di trovare qualcosa di spiacevole e, appoggiando la mano per scostare la porta ed entrare, lungo la schiena ebbe un gelido brivido che la bloccò.

- C’è qualcuno…Sto per entrare…- urlò per stemperare  la tensione e ancor più per lenire quel terrore che la stava aggredendo. Attese qualche istante con la speranza di sentire la voce profonda di Herman che la invitava ad entrare…Ma nulla…Non ci fu alcuna risposta. Allora, prendendo il coraggio a due mani, decise di rompere gli indugi e addentrarsi. Una volta superata la porta, il cuore cominciò a battere freneticamente. Nel corridoio, lungo all’incirca cinque metri, a terra facevano bella mostra una quantità considerevole di fogli. Sul mobiletto, dove Herman era solito appoggiare chiavi e documenti, si vedevano evidenti tracce di sangue, come se un bimbo di tenera età, per gioco, si fosse impegnato con colori a lasciare traccia del suo passaggio colorandone la superficie di formica bianca. A quella visione ebbe un sussulto. Cosa era successo? Si domandò mentre cercava di restare calma e non farsi assalire dal panico..In quel luogo di sicuro era successo qualcosa e quel sangue, ancora fresco, n’era la testimonianza tangibile. Decise di avanzare guardinga e, mentre lo faceva, s’impose di respirare profondamente, quasi se con quell’azione potesse allontanare le preoccupazioni che già facevano capolino. Facendo qualche passo in avanti raggiunse la cucina. In quel locale ogni cosa sembrava in ordine. Continuò ad avanzare lungo il breve corridoio che portava allo studio e, quando si trovò davanti alla porta, si fece largo nella sua mente la paura di trovare il collega riverso a terra senza vita. Il respiro accelerato continuava ad essere un segno evidente della sua preoccupazione, sintomo che s’intensificò quando da dietro la porta percepì un insistente brusio, come se uno sciame d’api protestasse con forza. Quello strano, sordo ronzio la mise in allarme. Era pronta ad entrare. Non sapeva cosa avrebbe potuto trovare dietro quell’uscio…ma non poteva più tirarsi in dietro, non poteva più fare retromarcia, indietreggiare o, peggio ancora, scappare. Si trovava lì e doveva ballare. Impugnò con forza la maniglia e, dando uno strattone improvviso, fece irruzione. La stanza era immersa nella confusione più completa. La luce, dispensata da una lampada da tavolo, posta sulla scrivania al centro del locale, illuminava con intensità tutto l’ambiente. A terra, sparpagliati alla rinfusa, cartellette, faldoni, fogli, fotografie e oggetti vari si alternavano sul pavimento come attori su un palcoscenico. I libri della libreria, posta dirimpetto allo scrittoio, giacevano ovunque sul pavimento senza un preciso ordine, qualcuno li aveva di certo scagliati con veemenza  a terra per impressionare… Constatò che non c’era alcun pericolo e, rilasciando un sospiro prolungato, fece qualche passo in direzione della scrivania e, una volta raggiuntala, appoggiando entrambe le mani, si voltò verso la porta dello studio…Dell’amico nemmeno l’ombra. Era chiaro che ad Herman doveva essere capitato qualcosa. Non c’erano più dubbi, gli indizi parlavano inequivocabilmente. Ciononostante, per rassicurare la coscienza, decise di provare a chiamarlo. Prese dalla tasca della giacca il cellulare, compose il numero e attese che dall’altro capo qualcuno rispondesse, ma, com’era prevedibile, non ci fu nessuna risposta. L’apparecchio risultava non raggiungibile. Richiudendo il telefonino, si rese conto che la faccenda era complicata, complessa, intrigata e che il suo amico s’era proprio cacciato in un bel pasticcio. Fu con quest’ultima certezza che decretò che era giunto il momento di avvisare la polizia. Quindi, con la mente trafficata di preoccupazioni, si lasciò cadere sulla comoda poltrona e, rivolgendo lo sguardo sul telefono posto a poca distanza dalla lampada, sollevò il ricevitore solo con due dita e digitò il numero della polizia.

- Pronto, qui il 113…Chi parla? – rispose una voce baritonale.

- Pronto, sono Elena Ancis, docente di Storia Antica all’Università di Bologna e vorrei denunciare una violazione di domicilio…- sentenziò con decisione  pur avendo una certa ansietà nel tono della voce.

- Signora, con calma. Mi ripeta cosa è successo… – replicò l’uomo che si trovava dall’altro capo del filo..

- Sì, certo. Sono nell’appartamento di Herman Quinax perché avevo un appuntamento con lui, ma sospetto che gli sia capitato qualcosa poiché quando sono arrivata la porta era aperta, scassinata e nell’appartamento regna una confusione tremenda, ma la cosa più allarmante è che ci sono tracce di sangue e lui non c’è...Di solito è sempre preciso…-.

- Sì, ma lei ora si trova in casa da sola? -.

- Ovvio che sono sola…Sono arrivata circa dieci minuti fa e sono davvero preoccupata…-.

- Le mando la pattuglia che si trova in zona. Resti però calma, ma soprattutto non tocchi nulla…mi raccomando -. concluse l’agente chiudendo la comunicazione. Erano passati solo dieci minuti da che aveva messo piede in quell’appartamento ma le pareva già un’eternità. Guardò istintivamente l’orologio da polso. Segnava le 9.20. All’improvviso, l’attenzione della docente ritornò a focalizzarsi sul sordo ronzio, che, dopo un momento di pausa, era ritornato a farsi presente con un’intensità maggiore. Seduta, indirizzò lo sguardo verso il luogo da cui proveniva, s’accorse che il fastidioso disturbo era generato dal portatile rimasto accesso sopra la scrivania. Muovendosi leggermente verso sinistra per avere una visuale migliore e toccando il mouse, sullo schermo del notebook apparve uno simbolo strano, un disegno articolato, una composizione grafica complessa, che, com’era prevedibile, attirò il suo interesse scientifico. Da una prima scorsa, comprese subito che quel frattale doveva significare qualcosa, doveva in qualche modo avere un’attinenza con il popolo Maya. Spostò con cura la poltrona avvicinandosi  ulteriormente alla macchina. Ora, l’aveva finalmente di fronte, la prospettiva era di gran lunga migliorata, i particolari del glifo s’erano fatti più nitidi, i contorni s’erano delineati con evidente chiarezza. Nel simbolo ruotante spiccava un viso di un essere soprannaturale, tenebroso, fiero, sprezzante, il cui sguardo altero incuteva una certa soggezione. Gli occhi, a forma di palla, possedevano una strana intensità, un chiaro ammonimento, una sorta di messaggio che poteva tradursi in una semplice frase: “state attenti”. Tra le orbite, poste in modo equidistante tra loro, faceva spicco un naso a proboscide, che, occupando per gran parte lo spazio sottostante, troneggiava con gran solennità sul volto, mentre la bocca, invece, posta un po’ più sotto, si mostrava in tutta la sua tensione autoritaria evidenziando una coppia di zanne acuminate che, fuoriuscendo per qualche centimetro dal labbro superiore, ne aumentavano la durezza. Quel viso dimostrava nei suoi tratti più significativi un rigore, una rigidità che era difficile  non notare. Era stato disegnato con l’intendimento d’impressionare, dovette ammettere Elena. Il glifo, che intanto continuava a ruotare senza sosta, disegnava traiettorie sinuose sul video e quel suo movimento ipnotico, ripetitivo continuava stranamente ad attrarla. S’era accorta con non poca sorpresa che gli occhi di quell’essere erano stati riprodotti in modo tale che, in qualsiasi prospettiva o posizione ti fossi posto,  ti avrebbero seguito senza scampo aumentandone inevitabilmente la stranezza. Una sensazione strana, fastidiosa, urticante, che possedeva una nota negativa. Come se dietro quel simbolo ci fosse stata una magia atavica, un potere oscuro che ti catturava e senza stravolgimenti in qualche modo ti condizionava, come se in quel frattale ci fosse un’energia che ti suggestionasse senza forzarti. In fondo era ciò che Elena percepiva nel guardarlo e, se tutto questo fosse stato vero, sarebbe stato un vero guaio perché la questione s’aggravava ulteriormente, prendeva un’altra piega, più oscura, più subdola, che celava risvolti che andavano oltre il conosciuto, che rasentavano l’occulto. S’augurava, tuttavia, che questa personale sensazione non avesse alcun fondamento e, staccando gli occhi dal monitor per rivolgerli in direzione dei ripiani della libreria, sospirò profondamente. Era preoccupata e quel luogo così devastato le metteva addosso una paura indescrivibile, il suo amico era sparito non lasciando alcun messaggio e tutto questo la faceva restare senza parole…

- C’è qualcuno…-  una voce altezzosa ruppe il silenzio.

- Sì, sono qui nello studio – rispose lei abbandonando quei pensieri. Due agenti, avanzando con sicurezza, entrarono nello studio. Quello più basso, scostandosi leggermente dal compagno, si presentò con fare gentile.

- Dalla centrale abbiamo avuto comunicazione di effettuare un sopraluogo a questo indirizzo. La segnalazione è stata fatta da lei? -.

- Sì, sono stata io…- confermò lei fissandolo in viso.

- Bene…Potrebbe favorire un documento d’identificazione – aggiunse lui con un tono pacato. Senza fretta Elena estrasse dalla borsa la carta d’identità e, consegnandola, rivolse lo sguardo sull’altro, che nel frattempo, aveva cominciato a guardarsi intorno. Si muoveva con attenzione e circospezione.

- Ottimo, signorina Ancis. Potrebbe raccontare cosa è successo…-.

- Certo…- deglutii e riprese - questa mattina mi trovavo nel mio studio all’università…Erano circa le 8.30, quando ho ricevuto una telefonata di Herman,  che mi diceva d’aver bisogno urgentemente di parlarmi e il tono della sua voce mi è sembrato subito preoccupato… –.

- Come fa ad affermarlo con questa sicurezza – .

- Sì…E’ vero. Oltre ad essere un collega, il signor Quinax è anche un caro amico. La nostra amicizia è di lunga data. Dopo tutti questi anni di frequentazione, riesco a capire i suoi stati d’animo. E in quel momento nella sua voce ho colto un’evidente preoccupazione…-.

- Mi state dicendo, quindi, che tra voi c’e una relazione – ribatté lui senza malizia.

- Ma no! – sbottò lei sorridendo – il nostro rapporto è esclusivamente amicale, le voglio bene ma non c’è mai stato nulla tra di noi -.

- Mi dovete scusare, ma la domanda purtroppo andava fatta -.

- Non si preoccupi…Credo siano domande di prassi – rispose lei appoggiando la mano sulla scrivania. Erano ormai molti anni che conosceva il suo collega, ma da quel punto di vista non l’aveva mai preso in considerazione. Il suo affetto per lui s’era sempre limitato ad un reale, vero rapporto d’amicizia, non aveva mai lontanamente pensato che potesse diventare qualcosa di più, sebbene si frequentassero quotidianamente e la sintonia era buona,  ed anche ora che quel poliziotto aveva sollevato il comprensibile dubbio, la sua risposta era stata  inflessibile. Non sapeva spiegarsi perché tra di loro non era mai scattata quella scintilla che avrebbe potuto tradurre un forte rapporto amicale in una relazione sentimentale, ma in tutti quegli anni non era mai capitato. Quel legame era sempre restato entro i confini di una fratellanza sincera e forte.  

- Sapete dirmi se avesse avuto delle tensioni con qualcuno..- riprese l’agente.

- Che io sappia no…E’ un uomo dal temperamento mite e non è incline allo scontro…Ma a questo punto non mi sento di confermarlo vista la situazione… – rispose lei ritornando a concentrarsi su quella situazione e lasciando filare via quelle considerazioni che per qualche momento avevano occupato i suoi pensieri.

- Credo che la competenza del caso, a questo punto,  passi obbligatoriamente all’investigativa, che è nostra premura avvertire immediatamente – spiegò con calma il poliziotto e, avvicinandosi all’apparecchio telefonico, fece un cenno con il capo al collega come se, durante la telefonata, dovesse in qualche modo spiegare l’intervento dell’investigativa.

- Direi proprio di sì – intervenne l’altro  -  l’investigativa avvierà un’indagine e dalla confusione che regna è necessario coinvolgere pure la scientifica. Di più non posso aggiungere, anche perché dovrà essere l’ispettore Caranelli a convocarla per un ulteriore colloquio… – concluse con cortesia.

- A questo punto, io che devo fare? – rispose la studiosa.

- Nulla…Può andarsene a casa e non appena l’ispettore Caranelli avrà avviato l’indagine, la convocherà  nel suo ufficio -.

- Bene…Allora vado…-. Raccolse la borsa, diede un’ultima occhiata alla scrivania e al notebook ed uscii con passo veloce dall’appartamento…..

 

 

 

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