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Franco Pucci

pucci

Onirico bianco -Trilogia del bianco

del bianco parlai
a tre sepolcri imbiancati
rinchiusi tra mura
di sorrisi compiacenti

 

del bianco portai
perché ogni mattone
rivelasse l’ipocrisia
della loro connivenza

 

di bianco tinsero le mura
di Gerico due farisei
orbi entrambi d’anima
mentirono il colore

 

pel bianco d’orbite
l’ultimo cieco non sentì
mura prive di vita
divennero sepolcri eterni

Nelle mani (in punta di piedi)

dietro il rovo le more
        là sul greto
        riflesso lunare

a mezzogiorno,
sul seno

 

-in punta di piedi, le ciglia-

 

quadretti scozzesi
        rosso e blu
        cotone appeso

sui sassi ad asciugare,
il giorno

 

-nelle mani, il sorriso-

Non eri un peso

Eri leggero
quando spingevo
nella carrozzina
i tuoi cinquant’anni
lungo le corsie.

 

Non eri un peso
quando ti aggrappavi
alle mie spalle
e scordavi il letto
per pochi momenti.

 

Non eri un peso,
quando trattenevo
il tuo desiderio
di prendere il volo
assieme alle rondini.

 

Poi,
fu macigno la vita,
la tua assenza,
papà.

Vertigine

Cammino così, un passo dopo l’altro, con circospezione, misurando le distanze, aggrappandomi al vuoto che mi circonda. La notte che solitamente mi è amica e compagna mi segue con attenzione quasi ostile, ironica, sbeffeggiando la mia difficoltà. Il passo non ha l’agilità né la leggerezza giovanile, eppure si ostina a rimanere ancorato al terreno. Ondeggio. Nel vuoto della mia mente il rumore dei passi strascicati rimbomba creando cadenze curiose. Una luce improvvisa taglia obliqua il molo, a fatica mi fermo, ma dentro di me la cadenza dei passi prosegue, ininterrotta. Il rimbombo si fonde con i battiti del cuore. Respiro. La ragazza sorride e si avvia verso i cassonetti della spazzatura. Riprendo il mio andare dondolante, movimento sincrono col rollio dei pescherecci ormeggiati e allineati in perfetto ordine, come tanti scheletri d’acciaio che seguono incuriositi il mio beccheggio. Non ho bevuto ne fumato, d’altronde non fumo più, ma il mio incedere è come etilico. Ora i pescherecci beccheggiano lassù, tra i gabbiani nel nero pece di un cielo orbo di stelle e mentre l’aspro odore delle calli che sfociano sul porto mi assale, mi sveglio. In un lago di sudore mi alzo, mi vesto esco da casa. I pescherecci sono al loro posto, ansimanti al respiro della darsena, mentre l’aria densa e acre mi assale. Una ragazza passa e mi sorride. La luce fioca del lampione sottolinea la sua andatura ciondolante e ritmata dai tacchi sul selciato. Una luce improvvisa la inghiotte e scompare. Resto così, inebetito, negli occhi il suo sorriso, nella mente un dejà vu. Vertigine.

Nero di china

Lo incontrai alle tredici e trenta un Lunedì di Aprile del 1961 in Viale Zara, a Milano, alla fermata del tram della linea n°2. Alto circa un metro e settantacinque, moro, di corporatura normale e di aspetto gradevole, sfoggiava con disinvoltura un fresco Principe di Galles decisamente in anticipo anche per la precoce primavera di allora. Milano conservava ancora i sapori e i profumi di buono nelle periferie sorte un po’ caoticamente nel dopoguerra e prese alla sprovvista dalla prorompente dinamica economica, il boom. Il sole in quel mese di Aprile giustificava un certo ottimismo e metteva di buonumore, i primi tepori primaverili si mischiavano con i desideri impellenti di luce e calore dopo i mesi di freddo e di nebbie.

 

Si avvicinò con fare indolente e sorridendo mi chiese da accendere, portandosi una sigaretta alle labbra. Giovane, pensai, certamente giovane. Scommisi con me stesso che non poteva avere più di sedici, diciassette anni. Azionai il mio “Zippo” estraendolo dal taschino dei Jeans (con un moto di orgoglio, fumavo anch’io allora) e mentre lui si inchinava per accendere la sigaretta, ebbi modo di vederlo bene in viso. Mi parve di riconoscerlo, era un viso a me noto... Lo sferragliare del tram sulle rotaie interruppe il mio gesto di cortesia e rimandò di poco l’approccio ormai avviato. Come il solito, la ressa davanti al bigliettaio formava un tappo che impediva il regolare fluire dei passeggeri e i mugugni e le invettive verso il malcapitato tranviere si sprecavano. Vidimai il mio tesserino settimanale e così fece anche l’elegante interlocutore che avevo poco fa conosciuto. Ci accomodammo pressati come sardine in circa trenta centimetri quadrati e il viaggio ebbe inizio…
Non aveva terminato gli studi regolari, mi disse, poiché desideroso di autonomia economica e giudiziosamente (almeno così pareva) conscio delle difficoltà economiche che il percorso scolastico creava sulle spalle della sua famiglia. Aveva così preso al volo l’opportunità che si era presentata di un “impiego” come apprendista disegnatore tecnico. Otto ore al giorno davanti ad un tecnigrafo a sfornare lucidi su lucidi di schemi elettrici. Passare a china su carta lucida i disegni che i disegnatori preparavano a matita utilizzando una penna particolare, il Graphos. Timbrare il cartellino con un occhio all’orario per evitare le trattenute sullo stipendio e alla sera a scuola!
Cercava di accontentare i desideri del padre che lo voleva Perito Elettronico e allora…frequentava a singhiozzo l’istituto tecnico. Poco interessato a resistenze e transistor, “bigiava” spesso le lezioni ed era diventato uno spettatore assiduo di film del neorealismo francese (alcuni terrificanti e terribilmente pesanti alla stregua della Corazzata Potemkin) e di avanspettacolo che improbabili compagnie di guitti e scartellate ballerine mettevano in scena al Cinema Teatro Alcione. Aveva anche una ragazza, bionda, occhi verdi, seno prorompente, tratti raffinati su un viso di madonnina ingenua. Non contento degli impegni presi amava la musica e occupava i pochi minuti liberi dedicandosi allo studio della chitarra. Mi raccontava tutto con fare quasi distaccato, da viveur consumato, bulletto di periferia azzimato incartato in un vestito appariscente troppo, troppo da “grande”. A questo punto gli chiesi l’età ed ebbi la conferma della mia prima impressione: diciassette anni! Avevo vinto la scommessa. Gli scossoni dell’incedere traballante del tram interrompevano spesso il racconto e davano all’insieme un che di surreale, di artefatto sembrava quasi un film di Ridolini, lui raccontava interrompendosi a ogni fermata della vettura e poi riprendeva daccapo, ripetendo parte delle cose già dette…
Ma io non lo ascoltavo più ormai, la mia attenzione era tutta rivolta verso una macchiolina nera che faceva capolino dalla manica della giacca sul polsino della sua camicia azzurra. Strano, pensai, possibile che il giovane elegantone non si sia accorto di questo”neo” nel suo abbigliamento? D’altronde non potevo non notare la “falla”, avevo il suo avambraccio a un palmo di naso. Si accorse del mio interesse e mi disse con noncuranza, sospirando, “è china, quel maledetto Graphos non ne voleva sapere di funzionare, l’ho agitato troppo forte e così… purtroppo non va via più” Lo stop improvviso del tram, la sua esclamazione di disappunto, il suo saluto frettoloso…”cazzo sono arrivatooo ciaoooo”. Sparì inghiottito dalla ressa dei passeggeri che si stava sciogliendo come un ghiacciolo al sole. Scesero tutti quel Lunedì del ’61 a quella fermata del 2, alla Stazione Centrale di Milano. Io no. Avrei dovuto, il tecnigrafo mi aspettava, la carta da lucido era già fissata con le puntine sul tavolo da disegno e il Graphos, quel maledetto, anarchico attrezzo, sicuramente se la rideva nel cassetto della scrivania. Non ne avevo più voglia.

 

Fanculo anche il cartellino penso, mentre con tenerezza infinita, quasi accarezzandolo, richiudo l’astuccio che lo protegge assieme alla sua dotazione di pennini. Sono cinquant’anni che giace nel cassetto dei ricordi, oggi mi è capitato tra le mani. Non smetto di aprire e chiudere la sua custodia, infine mi decido, lo prendo, provo a innestare un pennino, lo 0.16, quello che usavo per segnare le quote sui lucidi. Non scrive. Stupidamente provo ad agitarlo, è senza inchiostro Franco, cosa fai? Domani mi comprerò una nuova camicia azzurra.

bird
Franco Pucci primo classificato al concorso Il ricordo di te - Concorso in 20 giorni - sezione poesia - con Non eri un peso

Progettazione grafica e web editing: Anna De Vivo

 

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a cura di Ezio Falcomer

♦Compagnia di teatro sul web Accademia dei Sensi♦

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