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Prosa e racconti

Una storia d'altri tempi di cose andate e di cose venute...

 

La storia che voglio raccontarvi è una storia semplice. Un semplice altalenarsi di colori pastello tra il semilucido e l’opaco. Che tanto assomiglia all’alone della vecchiaia che avanza e costringe a volte a incollare e scollare ciò che v’è da scollare per rincollarlo. E questa vicenda vorrei proprio riportarla, come si faceva una volta, quando si raccontavano gli accaduti intorno ad un fuoco acceso, ed anche questa, iniziarla come si faceva allora… C’era una volta intorno all’inizio del secolo scorso, quando era più facile andare a piedi che trovare un passaggio da un carro trainato da buoi, un uomo lungo la strada.
Magro come un chiodo, con una giacca due misure più grandi e pantaloni di fustagno colore dei tronchi degli alberi che oltrepassava a due per volta ogni venti secondi. Percorreva un percorso di migliaia di volte percorso, su una strada da sempre uguale; identicamente uguale a quella stessa della sua infanzia. Se avevi la fortuna di poterlo osservare attentamente anche sotto la barba bianca, due rughe dalla metà del naso scendevano sino al mento come due parentesi intorno alla bocca; ma questo, in fondo in fondo, ha poca importanza. Torniamo invece al suo camminare. Quel percorso tante volte fatto, glielo leggevi nella noia che in fondo all'iride potevi intravvedere, così tanto per dire, anche in quell’unico pensiero che portava dentro al cuore, grande come tutta la sua vita. Poi, in men che non si dica, vi rintracciavi pure un acquerello appiccicato alla parete dei suoi ricordi: una donna lontana che difficilmente sarebbe tornata, con due bambini che la seguivano stuzzicandosi l’un l’altro. Ma lui sempre ci sperava e ci sorrideva. Capace come nessuno, di sorridere all’impossibile.
E mentre pensava alle speranze impossibili, camminava. Leggermente curvo con il passo cadenzato e lento, incurante del nulla che gli accadeva intorno e delle pochissime auto che passavano borbottando sul centro della strada alzando polvere e suonando sempre ed immancabilmente, quella trombetta tipo:“poti poti.” Camminava lento dicevamo, sul bordo della via, su terra di bosco che la strada a quel bosco aveva rubato, una striscia colore ocra che come un serpente terminava appena oltre il paese sovrastante.
Un fagotto appeso ai bastoni degli attrezzi da campagna tenuti insieme da due lacci, uno in basso ed uno in alto. Dai nodi ben stretti. Il tutto appoggiato sulla spalla ed all’avanbraccio a bilanciarne il peso. Un cappello a falda larga nero come il carbone con un nastro che pendeva da un lato come un vezzo. Un leggero vento gli faceva volare quel nastrino come una brandello di stendardo strappato in mille battaglie. Mentre intanto spazzava la polvere che le poche auto alzavano al passaggio. Lui ogni volta ne tossiva con noncuranza.
Il paese come ho già detto, era un poco più oltre. L’ultimo tratto sarebbe stato il più faticoso per un uomo della sua età. La sua casa era l’ultima alla fine delle case, oltre la piccola piazza del municipio. Si chiamava Anton quel paese. Ed anche Anton era ormai stanco di camminare. Si perché vi sembrerà incredibile ma ambedue avevano lo stesso nome. Sia la nostra comparsa che il paese avevano l’identico nome e quell’ultimo spesso si divertiva a creare confusione con l’interlocutore di turno sul fatto di chiamarsi Anton di Anton e davanti ad un buon bicchiere di vino, giù risate a morir dal ridere. 
Questa volta invece del vino, l'occasione di bere un sorso ad un filo d’acqua che scendeva da chissà dove cadendo lì sulla strada ed alla mattina mai avrebbe pensato di dedicarsi ad altri tipi di bevute, che bere vino era solo un momento della sera durante la cena e a volte a finir il bicchiere con un cucchiaio di zucchero ben girato toccandoci dentro l’avanzo del pane della cena.
Lui era nato in quel paese e la strada era la stessa di tutta la vita. E come ogni mattina si fermava al bar sulla strada. Una specie di emporio dove si poteva comprare quasi di tutto. In realtà era l'osteria del paese, ancor prima di arrivare al paese.
Spinse la porta in legno che lo separava dall’interno. E quando entrò sulla scena calò il sipario e piegata la schiena sugl’anni infranti, si sedette sulla solita sedia di tutte le mattine. Ma quella volta era chiaro già da come si era seduto, che non avrebbe partecipato in silenzio al silenzio di ogni mattina ma avrebbe parlato. Ed infatti fu così che da lì a poco, un decamerone di vita fu srotolato in pubblico, e lì si raccontò della sua storia accorsa al mese tredici del giorno seguente di quell’ultimo giorno sfuggito.
Il suo parlare era lento, quasi incerto, dietro alla barba del color di quel bianco del pane appena sfornato, ma il tono era austero, chiaro e deciso. Posso anche dire che quel giorno io c’ero, ed è per questo che ne parlo con tanta dimestichezza. Sarà stato quello stesso impossibile di colori e di vita vissuti o disertati, passati come è facile pensare come un volo d’appena sfiorato; ma egli lo tagliò come si taglia il pane sul tavolo della mensa la Domenica del dì di festa. Ed io lì ad ascoltare come si ascolta chi deve parlare. E con ossequio il silenzio gli lasci inondare.
Eppure intuivo le intensità sfuggite e le tendenze di livido da vecchi film. E bigio il cielo, del grigio pensiero sotto la pioggia che bagna l’asfalto che l’auto francese tritava lo stesso asfalto e i miei anni migliori… Ricordi? E ora mi si perdoni se mi incespico a parlar di me e di parlarne con voi che leggete... La ricordo perfettamente come se fosse adesso. Celeste opaca, sopra le pozze del bianco di neve e presagio di lacrime rosse al pensiero che andava. Verde fu invece l’ottavo giorno mai sorto al muschio del bosco. I funghi spuntati che lasciarono un leggero strato di umido odore vacuo di bosco, di castagno, di albero tosto e nervoso e al sole arancio della spiaggia della mia infanzia. Il blu fu all’ora venticinque, e il giallo di chi libero vive. Fu storia passata e poi lasciata lì come fango riseccatosi sul sentiero.
Ma torniamo alla nostra storia. Tutti conoscevano Anton. Aveva costruito una casa con le sue mani cinquant’anni prima quando ne aveva venti e si era sposato con una donna che dopo aver messo al mondo due figli, alla nascita del terzo morì di parto e anche il piccolo morì. Egli si trovò solo coi due marmocchi rimasti. Ma i guai non erano terminati anche i due bambini morirono, prima l’uno poi l’altro. La tubercolosi accompagnò il primo e l’altro finì sotto un carro mentre attraversava la strada. Erano anni brutti ma brutti veramente.
Dopo alcuni mesi dalla morte dell’ultimo figlio, Anton vendette metà della casa. La divise in maniera verticale dall’alto verso il basso e prese per se la parte verso il monte e mise in vendita la parte verso valle. Nonostante la rude scorza contadina che obbligava a non pensare troppo ed a non perder troppo tempo dietro gli orpelli della vita ed a pensar solo al lavoro, forse troppo solo si ritrovava alla sera e troppo solo era già al mattino, che quando aprendo la finestra della stanza non poteva non vedere la strada che sotto i due tornanti aveva portato via la vita di uno dei suoi due figli neppure il tempo di sentirsi esaurito che fece la scelta. Fu una scelta difficile. La notte ci pensava e al mattino non apriva la finestra perché sapeva che gli sarebbe venuto da piangere e non si poteva cominciare una giornata piangendo… diceva. Alla fine si convinse che sarebbe stato bene disfarsi di quel supplizio e fece l’affare con un villeggiante che vi andava solo d’estate per una ventina di giorni.
Conosci la strada per Santiago? Dimmi, conosci la strada per Santiago? Dimmi, la conosci o no? Dai, dimmi se la conosci? Mi chiese ripetutamente un giorno molti anni dopo, quando ormai pareva, agli occhi di tutti, quasi rimbambito e parlava ripetendo in continuazione le stesse domande. Risposi di si e che sapevo di quella strada e aggiunsi: “Marrone come la cartina tornasole e che una volta camminai col bastone al centro del cerchio. Camminai col bastone e la fiamma guizzava e brillava, e sfavillava e rosseggiava… balda e audace come in una poesia. Ma il tredicesimo mese il palco fu viola e tutti urlarono… e io pure… E fu così che tornai dal cammino di Santiago. Tornai e da lì ricominciai a pregare… e non solo Dio.”  A quella risposta rimase in silenzio attonito. Da quel momento, per anni e anni, se m’incontrava per strada e mi fermava per parlare del più o del meno, ma mai ritornò su quell’argomento.
Ricordo però che fui proprio io a nominargli di quell’autista che fuggì con mezzo e tutto e dell’accendino rosa che pendeva sotto l’armadio. Un’altra volta gli raccontai del bus che occhieggiò la biondina mezza svestita e alla luce verdognola quasi improvvisamente, scoppiava la penombra e il buco via via si fece sempre più grave e quasi s’ammalò. Gli raccontai anche del proletario che piegò il drappo strappato e che ebbi appena il tempo di vederlo garrire, un attimo soltanto, da un ultimo vento bizzoso e da una mano non incline al ripiego. Gli dissi pure che quella volta, sorrisi felice di averlo veduto ancora, anche se solo per quell’istante, da poterlo almeno raccontare… e la cosa più bella fu poterlo raccontare proprio a lui. Ricordo, mi annuiva e fu lì che capii che era l’unico che capisse quel che intendessi dire e quindi azzardai: “E dove tutto non abbia perso il senso” aggiunsi:  “Ancora mi siedo volentieri e guardo, laddove il bianco, sia di bianco vestito, e il nero sia nero, di nero pregato. Non rinnego il mio tratto, lo ammetto, ed al mio petto poso spesso ancora una mano e ascolto battervi dentro il cuore.”
A quest’ultima battuta lui fece l'atto di applaudire - e poi lo fece sul serio - ripetendo una specie di bravo bravo, che mi sembra ancora di rivederlo applaudire con gli occhi lucidi dalla commozione…
Poi nella sua vita si sposò ancora una volta ed ebbe un figlio che chiamò come io mi faccio chiamare ed ebbi anche la fortuna di diventargli amico e fu proprio egli che mi parlò di lui.
Ma questa è un'altra inimmaginabile pagina per un altra sera intorno al fuoco di questo camino che è il nostro scrivere e il nostro leggere quaggiù tra noi...

La parola di cinque lettere

La parola che ha detto continua a risuonarle nella mente, come quel cortese imbarazzo che l’ha accolta. Lei non sa come le sia venuto in mente, di dirla. Le è proprio sfuggita. L’ha pronunciata a capo chino, a voce bassa. Eppure è bastata a spegnere la conversazione nel solito gruppo di amici, riunito per una cena ed una piacevole chiacchierata. Per fortuna era abbastanza tardi per congedarsi, andare ognuno a casa sua. Già se li immagina, col loro sorriso ironico. «Ma proprio lei, ma ci pensi?».
 
O magari no, non avranno detto niente, si saranno limitati a scrollare le spalle.
 
No, proprio non lo sa cosa le sia venuto in mente. Eppure in queste occasioni è sempre controllata, ironica, dispensa argute osservazioni e citazioni colte senza mai risultare supponente, insomma, la conversatrice perfetta. E adesso, fare una figura del genere...
 
Eppure si stava parlando delle solite cose. La politica - ma solo per fare qualche battuta ironica sull'Italia che non cambia mai - l'ultimo libro di tizio, l'ultimo film di caio, la tal mostra, il tal concerto. Poi uno ha detto: ah, per me il cinema è veramente importante. E così si è passati a parlare di quali siano le cose «veramente importanti». E chi citava la lettura, chi l'ascoltare musica, chi il viaggiare...
 
Lei, contrariamente al solito, stava zitta. Li ascoltava come se fosse immensamente lontana, non nella stessa confortevole stanza con loro, seduta sul confortevole divano di quella confortevole stanza. Li ascoltava e pensava: «no, no, non è così, c'è qualcosa di più importante». Ma era come se questo qualcosa le sfuggisse.
 
Ma  lo sapeva, lo sapeva che c'era qualcosa di più importante. La sua mente analitica continuava a cercare, cercare. E poi all’improvviso l'aveva trovato, quel qualcosa, ed era rimasta stupefatta dalla semplicità della risposta. E proprio in quel momento, incuriositi dal suo silenzio, le avevano chiesto: «E per te, qual è la cosa veramente importante?» e lei non aveva potuto farne a meno di dirlo anche a loro, come se fosse la soluzione di un indovinello che era riuscita a decifrare. E l'aveva pronunciata, quella stupida parola di cinque lettere. Aveva detto:
 
«Amare».
 

Scrivere è bellissimo!

Tre stelle brillano nel cielo in questa notte calda. Esco dal bagno avvolta nell’accappatoio e scivolo nella mia camera, a piedi scalzi. Decido di indossare per la prima volta dopo tanto tempo la mia camicia da notte di lino viola e mi butto sul letto. La casa è buia, l’unica luce accesa è quella della mia camera da letto, fioca, devo cambiare lampadina. La porta-finestra è socchiusa e uno spiffero d’aria solleva le mie tende color pastello, facendo disegnare loro ampi cerchi concentrici. Finalmente è estate. Pensieri senza forma rimbalzano qua e là nella mia testa mentre cerco istintivamente un foglio straccio e una matita che si possa definire tale. E’ sempre così: quando sento il bisogno di scrivere mi prudono le dita e devo chiudere gli occhi forte per non lasciar scappare il pensiero che ho in testa. Recuperato un moncherino e un block notes mi butto avidamente sulla carta: che bello scrivere. Osservo felice il mio pensiero che finalmente ha preso forma, la forma di tante lettere e parole che danzano nella mia stanza e che mi sorridono. Scrivo, scrivo e non mi fermo, è difficile trovare un modo per concludere i pensieri di quella giornata. Perché se riesco a trovare una fine per il mio racconto, non posso dire lo stesso dei miei pensieri, che si evolvono e crescono, durante tutta la notte. Scrivo di me, di quello che ho in testa, di quello che penso e di come vorrei cambiare il mondo. Scrivo delle mie emozioni, dei miei sentimenti, delle cose che mi succedono. Scrivo delle mie manie, della Terra che si trasforma, di come vedo le cose, di come considero le persone. Scrivo di tutto.

L'uomo nero

E' un lavoro prevalentemente notturno il suo ma, ultimamente, non soltanto. Fa interventi a richiesta conto terzi o su diretto bisogno di un gran numero di utenti che lo utilizzano spesso per soddisfare sogni di rivalsa. Non gli piace un gran ché ma, quello, è il lavoro di famiglia, remunerativo e tradizionale. Esce all'imbrunire, percorre viuzze buie, maleodoranti, rasentando muri, nascosto in palandrane nere munite di cappuccio. Nessuno conosce il suo viso perché di volta in volta deve assumere i lineamenti che il committente richiede. Lavoro duro per intensità ed ampiezza. All'ora di cena, ogni sera, deve presentarsi a Via Dei Caprini 19, dove c'è quel ragazzino impossibile che non vuole cenare e ancor meno addormentarsi. La madre dopo diversi tentativi, lo invoca, scoprendo il suo nascondiglio nello sgabuzzino delle scope, descrivendolo, per dargli modo di memorizzare e lo chiama. Il bimbo dapprima sorride incredulo ma, dietro i dettagli che la madre fantasiosamente ammucchia, si decide a infilare in bocca il cucchiaio. Poi non c'è che da aspettare che si corichi e tranquillo con la madre che lo ninna, salvaguardandolo, si addormenterà. Stanotte c'è anche il lavoro dal Rag. Rosati, insiste a mandarlo dal Rozzi, suo capo ufficio, per rendergli il sonno poco riposante. Non è difficile, anche se l'ingegnere prende un sacco di pillole. Lo rende irrequieto quel tanto da farlo svegliare due o tre volte, andare al bagno e mangiare qualcosa dal frigorifero e imprecare, contro se stesso, che il lavoro lo sta mandando al manicomio. Peggio dalla Sig.ra Stecchi, quella è troppo esigente, ogni notte gli fa interpretare una scena di violenza sessuale su canovaccio inventato da lei stessa e ogni volta finalizzato allo stupro. Una fatica! Anche per quel tifoso di calcio che pretende si mangi tutti i giocatori della squadra che odia.

Stesura definitiva


 che ringraziamo per il gran lavoro fatto. 
Grazie anche agli scrittori partecipanti per l'entusiasmo con cui hanno raccolto la nostra proposta di scrittura collettiva. 

redazione RV

Memorie (inutili)

Quando il mattino della vita, dalle grandi vetrate degli occhi infantili mi faceva luce dentro e irrequieto curioso straniavo gli obblighi dati, avevo un fortilizio solitario dirupato, trovato nei molti viaggi fantasiosi tra i muri crollati d'un palazzo dalle bombe sventrato. Luogo pericoloso a vista per soli alieni a caccia di misteri, dove le erbacce caparbie, lentamente, riconquistavano spazi abbandonati, angoli riparati in cui la guazza bagnava semi dal vento trasportati. L'angolo più recondito ombroso, di giorno in giorno si faceva covo, una parvenza una scarna copia d'un habitat domestico più noto: un sedile e un desco di pietra scalcinati, inutile lume una bugia rotta, un vecchio chiodo infisso nel muro per appendere bastoni cianfrusaglie raccattate; una boccia crepata teca d'una lucertola viva alimentata e mosche giornalmente. Arredi patrimonio tesori del pirata che premeva nascermi nelle voglie di volare, andare via. Sulla breccia d'ingresso fissato come chiave di volta, i resti di un rapace impagliato acefalo, per spaurire terrorizzare - forse - gli intrusi. Senza rendermene conto, piano piano, tutto scivolava via tra i nuovi interessi legati alla crescita, di cui non ho  più contezza ma, quella, la rocca segreta solitaria, è restata. Ha figliato. Ora lì c'è un palazzo di dieci piani.

La luce spenta di un piccolo diamante.

Non sapevo che il nero profondo del buio potesse accecare come un lampo improvviso nella notte. Eppure brancolo nel buio accecante del profondo dell’anima sperando di ritrovare il filo rosso che mi riporti alla luce naturale, allo splendore del rosso acceso del mio cuore. Sprofondato nel nero assoluto anelo la gioia dei colori della poesia. Piccolo, iridescente diamante sfaccettato, racchiuso nella mia mano che da tempo ha spento i suoi meravigliosi riflessi. Ti metterò lì, incastonato, vicino al cuore. I suoi battiti ti faranno rivivere, tornerai a regalarmi l’iride dei tuoi colori.

Tasche vuote.

Ho rovesciato la mia vita come si fa quando si vuotano le tasche, non c’è rimasto niente. Quello che avevo da spendere l’ho speso. Niente rimorsi. Ho vissuto pienamente, intensamente. Ora che le rughe sono come grinze di un vestito passato di taglia, nelle tasche vuote ritrovo solo le briciole dei ricordi che non vogliono morire soffocati. Le ho buttate. Ho visto volteggiare dei corvi. Presto dei ricordi non rimarranno neanche le briciole. Meno male, ho fame di nuovo. Di vita.

Delle forme, delle Idee, delle Categorie a Yellowstone

“Andiamo Bubu”.

“E dove?” rispose Bubu saltellando ora sulla punta di un piede ora sulla punta dell'altro onde cercar di capire qual'era la gamba migliore che avesse, di cui potesse fidarsi di più nel caso gli fosse capitato di dover correre su una gamba sola, o anche unicamente di camminarci, su di un solo piede, a Yogi Bear che già si stava incamminando spedito.

“Mi verrà in mente durante la giornata” si lasciò sfuggire l'orso più grande sorridendo tra se e se con espressione furbesca e sorniona senza aggiungere alcunché non voltandosi comunque né di lato né tanto meno indietro, che altrimenti l'amico avrebbe potuto pensare chissà cosa una volta che gliel'avesse scorta.

Si si, Yogi conosceva perfettamente il compagno, o almeno credeva di conoscerlo stante che erano nati lo stesso minuto, la medesima ora, giorno, mese ed anno, ed avevano sempre convissuto.

Sapeva per esperienza che a Bubu, a volte succedeva.

“Quello è un salmone” aveva urlato per la gioia alzando le mani al cielo Yogi dopo averle tenute a mò di visiera sugli occhi. Per alcuni istanti, dato che erano sulla sponda che dava contro il sole: un sole che così pulito tutti e due, sia presi isolatamente che insieme, non l'avevano mai visto riflettersi sulle onde argentee di quella enorme, pericolosa ed altrettanto immaginifica, ombrosa, fresca distesa d'acque.

E Bubu di rimando abbassando ambedue le braccia lungo il corpo. “è una carpa”.

Cesarina

 Cesarina era mia madre, e questa è la straordinaria storia che mi raccontò.
 
IL PADRE DI CESARINA
    Luigi, il padre di Cesarina, era molto bello. Questo era il motivo precipuo  per cui Maria, la madre di Cesarina, l'aveva sposato. Si erano conosciuti perché lavoravano entrambi a servizio, credo della principessa Pignatelli, dove Maria faceva la cuoca e Luigi il maggiordomo.
  Maria, quando conobbe Luigi, era vedova: il suo primo marito, Renato, era morto nella Grande Guerra, anzi, era stato uno dei primi morti di quella tragedia. Non in un'azione militare, ma era morto di tifo, lassù al nord, lasciandola da sola con due figli piccoli, a Cesano, un paesino vicino Roma. La sua era una famiglia  contadina, ma la terra era andata ai suoi numerosi fratelli maschi, lasciandola senza mezzi di sussistenza.
Per questo lei si era trasferita da Cesano a Roma, per poter lavorare e mantenere i suoi due figli. Aveva fatto prima la sguattera, poi la cameriera e piano piano, lucidando scarpe e argenteria, pulendo saloni e verdura,  aveva salito la scala sociale di questo mondo servile, diventando cuoca.
  Ed insomma, ad un certo punto aveva incontrato Luigi. Aveva 11 anni meno di lei. Era alto ed aveva un sorriso luminoso. Veniva da Rimini ed anche il suo buffo accento contribuiva al suo fascino. Non so se fu amore a prima vista, non so chi corteggiò chi. Ma il fatto è che nonostante l'opposizione dei suoi due figli di prime nozze, Primo ed Egle, che lo consideravano un avventuriero, Maria lo sposò. E così nacque Cesarina, nel 1928.
  Purtroppo, la vita con Luigi sembrava confermare i sospetti dei suoi due fratellastri. Luigi, forte bevitore, prima perse il lavoro, poi cominciò ad essere assente per periodi sempre piu' lunghi. Maria non solo dovette continuare a lavorare, ma fu costretta a mettere Cesarina in collegio, dove rimase sino a che non ebbe 15 anni.
 

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