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blog di fabiomartini

Vuoi vedermi sorridere?

Soltanto a fare il tuo nome
mi trema la voce ogni volta.
L’amore mi fa brillare gli occhi
perdendosi nei tuoi.
Una parte del tuo viso
entra nel mio cuore ed è
una giostra di sensazioni
pur dopo millanta tempo amor mio...
unico... amore mio che sei.
Io
incespico nei pensieri
della notte
che gira lenta il tempo
al suo quadrante inesorabile
vola via con te
e che fermar vorrei…
Dimmi che senti i miei passi
accanto ai tuoi
dimmelo e dimmelo urlando
perché voglio sentire
la tua voce.
Non bastano ormai più
i tuoi sorrisi
non bastano ormai più
i tuoi “amor mio”.
Dimmi e urlami che mi ami
come la prima volta.
Dimmi che anche tu
quando mi guardi
senti le gambe che non reggon più
e devi attaccarti a me
per non cadere…
Dimmelo amore mio
dimmelo
 
e lì...
mi vedrai sorridere.

Triste contorno

 
L’uomo alto e magro balla con lei
la luna falce, la sala cielo,
lui stella, lei pianeta.
Guarda in alto, cosa vedi?
Neve vedo... scender… giù.
 
Passa il tempo sopra gli occhi
perché fa cosi?
Ogni anno che va via una ruga in più
sopra il viso.
Guarda in alto, cosa vedi?
Vedo la neve... scendere
 
Ogni giorno che va via non tornerà.
Non si fermerà.
L’uomo alto e magro balla con lei
cometa del cielo.
Guarda in alto, cosa vedi?
Vedo la neve... scendere
 
Apre la finestra l’uomo alto e magro
ogni anno che va, una ruga in più
sopra il suo viso.
Specchio e tempo.
Guarda in alto, cosa vedi?
Vedo la neve... scendere.
 
 ...Sulle mie spalle
 
 

Cuore in gamba e gambe buone

Lo ricordi quel sentiero
che la notte ci legava
a quel vecchio asciugamano?
Lo strapiombo.
Lo ricordi?
L’abbaiare di quel cane abbaiato da lontano?
Era andare, era…
Come fosse il naturale
della vita al nostro fianco
e il da farsi... carpe diem.
Io laggiù insieme a te
come camminarvi sopra
tu semplicemente come…
camminarmici al mio fianco.
Ma una notte mai finita
resta li
dentro al tempo temporale
come niente andato fosse
sempre lì.
Camminarvi di normale
per chi ha le gambe buone…
Gambe e cuore
e cuore in gamba
e chi è in gamba, va lontano,
ma chi ha cuore và di più…
Sia che si ritorni indietro,
sia che si continui avanti
anche se pur solo appesi:
ma chi ha cuore... ha d’andare.

Isola nella corrente

Stanotte, con te.
Panama lontana. Notte scura
amico mio (se posso dirlo)
che sempre ho cercato e mai trovato
e come me... mai vissuto.
Parlar tuo di pesci e sorrisi
e fiestas grandes che chi t'ha letto sa.
 
Cancro di segno e di vissuto
ai fiumi i tuoi racconti
d’infanzia nel sole e isole di correnti
natura e passioni d’amore
di Mercurio e Nettuno in sesto.
Dei Gemelli hai girato tu stesso forte
e così debole uguale, come me
istrione… e padre a volte.
 
Vanitoso e capriccioso amico
tristemente perduto.
Cosa avresti
raccontato mai di corride
e toreri, di caccia grossa o di morte?
Troppo intelligente e irrazionale
per vivere ancora.
 
La morte, tuo viaggiare infinito
finalmente raggiunto...
Generazione la tua perduta.
Amor di vita
gettata ad alcool e racconti immortali.
Elettrochock fatale
per te perduta memoria, fucile
...nostalgia.
 
Lasciata onda del mare di una notte
che nessuno presto ricorderà
...e fugge perduta.
Credimi, come vorrei che tu fossi qui
tra le mie parole stanotte
tra le parole tue che leggo
e queste mie... che scrivo.
 
Dieu soit avec toi, mon ami
...Adieu.

Da Sabina

Hice un solo desafinado con las cenizas del amor
las verbenas del pasado cangrenan el corazón.
Acórtate la falda nueva despiértate al oscurecer
túmbate al sol cuando llueva no desordenes mi taller
Tiramisú de limón helado de aguardiente
muñequita de salón tanguita de serpiente.

De madrugada y por la puerta de servicios
me pasabas el hachís
al borde del precipicio jugábamos a Thelma y Louise
Pero esta noche estrena libertad un preso
desde que no eres mi juez.

Tu vudú ya pincha en hueso, tu saque se enredó en red.
Tiramisu de limón helado de aguardiente
puritana de salón tanguita de serpiente.

Dónde crees que vas qué te parece que soy
no mires atrás que ya no estoy.
Pero dónde crees que vas qué te parece que soy
si miras atrás mañana es hoy.

Dónde crees que vas qué te parece que soy
puede que quizás luego sea hoy.
Nena dónde crees que vas que te parece que soy
no mires atrás que ya me voy.
Que sepas que el final no empieza hoy
para amable concesion a Sabina gracias hoy...

11 Marzo 2004

Hai sentito anche tu
quel brivido dentro
quando le strade di pianto
si riempirono 
e da Alcalà a la Mayor
di sangue
come fiume in piena
il letto fu Gran Via
che scorse profondo lungo la metro
poi risalì ad ogni stazione
e Puerta del Sol mai fu vista così
che la gente piangeva
e s'abbracciava... ricordi?

E qui il telefono suonò.
Milleseicento chilometri per dirmi
"Noi stiamo bene"
e poi un pianto prese il cuore
Soltanto tristezza. Profonda tristezza.
E scorse il pensiero al verde Retiro
alla Castellana... le passeggiate... il sole.

Duecento fiammelle che mai spegneremo.
Dentro di noi un profondo rimorso
un brivido che ci porta via.
Ancora una volta sbagliammo
da Malasana a Alonso Martinez
da Lavapies alla Latina
dal Rastro a Casa de Campo
avremmo dovuto poner 
en entredicho
ma troppo in fretta abbiamo aperto
le nostre braccia.

E questa mattina da Aluche e Moncloa
ognuno di noi dentro al cuore
ha un bus che triste riparte
...per Calle Melanconia. 
 

Di quando valeva la pena e per piovere si faceva il ballo.

Io che avevo un bottone di baco
e una seta di rose rosso ardente.
Un paio di scarpe da clown gialle
e occhiali da sera grandi e scuri.
Una vecchia Olivetti portatile
e un treno già al ritorno.
La tessera del Genoa e un fondo di vin bianco.
Un genio d’amico che suonava al piano
canzoni d’amore senza il do e il fa.
Un vecchio avvocato. Una maniglia segnata,
una bici diabetica, un cumulo, un cirro,
un estratto, un cammello col re Baldassarre.
Mia Nicol dissi e Gioconda rispose.
Mia Wendy, la prima signora... la più bella.
Volavano via i tre moschettieri.
Rin tin tin, il mio jojo, l’azzurro del mare
il sette di coppe e lo sguardo di te
che mi uccidevi il cuore.
Il bosco di note e il tempo che passa.
Una lampada di Aladino
dentro un cappello a cilindro.
Non sapevo che la primavera
durava solo un secondo.
...ma io volevo soltanto scriver la poesia
più bella del mondo.
... Io volevo soltanto scrivere
una poesia...
Ora vi presento la mia nonna Abelarda.
La mia sposa solitaria.
Il padrino che mi sposò.
La legione straniera.
Mio fratello che vende la merce
al mercato ambulante
e Simbad che vende il nipote cantante.
La puttana Carlotta e il suo cane bassotto.
La mia giubba di cotta di maglia
e contro il destino continuo la guerra.
Ma riposa chi sogna nel sogno. 
I bimbi ad esempio,
così quando sogno, fingo anch’io...
Le banche ai conti del business
all’accademia del furto, canto,
del cigno il “Simon delle sirene”
che pianse al monte Calvario.
Se tu volessi sposare il commissario, dissi,
il carro è al ponte e la speranza allo scoglio del mare.
Il si del cane e la demenza. La lista del ricercato
e poi tu, bottiglia di rum a un concerto lontano.
Vuoi sapere la lezione al coma profondo?
Non puoi pensare diverso è la canzone
della barca sul mare. E della foresta incantata
le lacrime a piovere
quando valeva la pena.
E della pagina di una poesia
che parlasse del mondo.
Della penna intinta nell’inchiostro
colato e iracondo…  

E pensare che io che volevo soltanto

scrivere
...la poesia più bella del mondo.

 

Al Sup. Marcos

Don Marcos: Io non so se non le sembrerà strano che le scriva, però risulta che mi duole un molare e secondo quanto sto leggendo, lei sta andando ora per queste terre che, finché non termineranno di venderle, continueranno ad essere di chi sono. Cioè quelle di chi l’hanno sempre vissuta e lavorata.
Allora ho pensato che, approfittando del fatto che mi duole il molare e che lei sta camminando sotto questi cieli, io potevo scriverle e salutarla e invitarla a scambiarsi una manata sulle spalle con me (a larga distanza, si capisce). Che ne dice?
Come? Che ha a che vedere il dolore al molare con una manata sulle spalle? Bene. Lei ha ragione, devo spiegarle allora la relazione, molto strana, che esiste fra il dolore al molare, il fatto che lei cammini per queste terre, la larga distanza e una ragazza.
No, non si sorprenda del fatto che ora sia apparsa pure una ragazza. Sempre ne appare una, lei lo sa Marcos.
Bene, risulta che, mentre io stavo passando per quella tappa difficile in cui uno scopre che non è più un bambino e neanche riesce ancora ad essere un uomo (quella tappa, lei lo sa Marcos, in cui le femmine si trasformano da moleste a interessanti e da lì quanti problemi), conobbi un vecchio che, senza che glielo chiedessi, decise che doveva darmi un consiglio sopra questi esseri incomprensibili però tanto amabili che erano, e sono, le donne. "Guarda ragazzo -mi disse- la vita di un uomo non è altro che la ricerca di una donna. Attento che dico una donna e non qualsiasi donna. E per una donna, ragazzo, mi sto riferendo a una come unica.

Una storia d'altri tempi di cose andate e di cose venute...

 

La storia che voglio raccontarvi è una storia semplice. Un semplice altalenarsi di colori pastello tra il semilucido e l’opaco. Che tanto assomiglia all’alone della vecchiaia che avanza e costringe a volte a incollare e scollare ciò che v’è da scollare per rincollarlo. E questa vicenda vorrei proprio riportarla, come si faceva una volta, quando si raccontavano gli accaduti intorno ad un fuoco acceso, ed anche questa, iniziarla come si faceva allora… C’era una volta intorno all’inizio del secolo scorso, quando era più facile andare a piedi che trovare un passaggio da un carro trainato da buoi, un uomo lungo la strada.
Magro come un chiodo, con una giacca due misure più grandi e pantaloni di fustagno colore dei tronchi degli alberi che oltrepassava a due per volta ogni venti secondi. Percorreva un percorso di migliaia di volte percorso, su una strada da sempre uguale; identicamente uguale a quella stessa della sua infanzia. Se avevi la fortuna di poterlo osservare attentamente anche sotto la barba bianca, due rughe dalla metà del naso scendevano sino al mento come due parentesi intorno alla bocca; ma questo, in fondo in fondo, ha poca importanza. Torniamo invece al suo camminare. Quel percorso tante volte fatto, glielo leggevi nella noia che in fondo all'iride potevi intravvedere, così tanto per dire, anche in quell’unico pensiero che portava dentro al cuore, grande come tutta la sua vita. Poi, in men che non si dica, vi rintracciavi pure un acquerello appiccicato alla parete dei suoi ricordi: una donna lontana che difficilmente sarebbe tornata, con due bambini che la seguivano stuzzicandosi l’un l’altro. Ma lui sempre ci sperava e ci sorrideva. Capace come nessuno, di sorridere all’impossibile.
E mentre pensava alle speranze impossibili, camminava. Leggermente curvo con il passo cadenzato e lento, incurante del nulla che gli accadeva intorno e delle pochissime auto che passavano borbottando sul centro della strada alzando polvere e suonando sempre ed immancabilmente, quella trombetta tipo:“poti poti.” Camminava lento dicevamo, sul bordo della via, su terra di bosco che la strada a quel bosco aveva rubato, una striscia colore ocra che come un serpente terminava appena oltre il paese sovrastante.
Un fagotto appeso ai bastoni degli attrezzi da campagna tenuti insieme da due lacci, uno in basso ed uno in alto. Dai nodi ben stretti. Il tutto appoggiato sulla spalla ed all’avanbraccio a bilanciarne il peso. Un cappello a falda larga nero come il carbone con un nastro che pendeva da un lato come un vezzo. Un leggero vento gli faceva volare quel nastrino come una brandello di stendardo strappato in mille battaglie. Mentre intanto spazzava la polvere che le poche auto alzavano al passaggio. Lui ogni volta ne tossiva con noncuranza.
Il paese come ho già detto, era un poco più oltre. L’ultimo tratto sarebbe stato il più faticoso per un uomo della sua età. La sua casa era l’ultima alla fine delle case, oltre la piccola piazza del municipio. Si chiamava Anton quel paese. Ed anche Anton era ormai stanco di camminare. Si perché vi sembrerà incredibile ma ambedue avevano lo stesso nome. Sia la nostra comparsa che il paese avevano l’identico nome e quell’ultimo spesso si divertiva a creare confusione con l’interlocutore di turno sul fatto di chiamarsi Anton di Anton e davanti ad un buon bicchiere di vino, giù risate a morir dal ridere. 
Questa volta invece del vino, l'occasione di bere un sorso ad un filo d’acqua che scendeva da chissà dove cadendo lì sulla strada ed alla mattina mai avrebbe pensato di dedicarsi ad altri tipi di bevute, che bere vino era solo un momento della sera durante la cena e a volte a finir il bicchiere con un cucchiaio di zucchero ben girato toccandoci dentro l’avanzo del pane della cena.
Lui era nato in quel paese e la strada era la stessa di tutta la vita. E come ogni mattina si fermava al bar sulla strada. Una specie di emporio dove si poteva comprare quasi di tutto. In realtà era l'osteria del paese, ancor prima di arrivare al paese.
Spinse la porta in legno che lo separava dall’interno. E quando entrò sulla scena calò il sipario e piegata la schiena sugl’anni infranti, si sedette sulla solita sedia di tutte le mattine. Ma quella volta era chiaro già da come si era seduto, che non avrebbe partecipato in silenzio al silenzio di ogni mattina ma avrebbe parlato. Ed infatti fu così che da lì a poco, un decamerone di vita fu srotolato in pubblico, e lì si raccontò della sua storia accorsa al mese tredici del giorno seguente di quell’ultimo giorno sfuggito.
Il suo parlare era lento, quasi incerto, dietro alla barba del color di quel bianco del pane appena sfornato, ma il tono era austero, chiaro e deciso. Posso anche dire che quel giorno io c’ero, ed è per questo che ne parlo con tanta dimestichezza. Sarà stato quello stesso impossibile di colori e di vita vissuti o disertati, passati come è facile pensare come un volo d’appena sfiorato; ma egli lo tagliò come si taglia il pane sul tavolo della mensa la Domenica del dì di festa. Ed io lì ad ascoltare come si ascolta chi deve parlare. E con ossequio il silenzio gli lasci inondare.
Eppure intuivo le intensità sfuggite e le tendenze di livido da vecchi film. E bigio il cielo, del grigio pensiero sotto la pioggia che bagna l’asfalto che l’auto francese tritava lo stesso asfalto e i miei anni migliori… Ricordi? E ora mi si perdoni se mi incespico a parlar di me e di parlarne con voi che leggete... La ricordo perfettamente come se fosse adesso. Celeste opaca, sopra le pozze del bianco di neve e presagio di lacrime rosse al pensiero che andava. Verde fu invece l’ottavo giorno mai sorto al muschio del bosco. I funghi spuntati che lasciarono un leggero strato di umido odore vacuo di bosco, di castagno, di albero tosto e nervoso e al sole arancio della spiaggia della mia infanzia. Il blu fu all’ora venticinque, e il giallo di chi libero vive. Fu storia passata e poi lasciata lì come fango riseccatosi sul sentiero.
Ma torniamo alla nostra storia. Tutti conoscevano Anton. Aveva costruito una casa con le sue mani cinquant’anni prima quando ne aveva venti e si era sposato con una donna che dopo aver messo al mondo due figli, alla nascita del terzo morì di parto e anche il piccolo morì. Egli si trovò solo coi due marmocchi rimasti. Ma i guai non erano terminati anche i due bambini morirono, prima l’uno poi l’altro. La tubercolosi accompagnò il primo e l’altro finì sotto un carro mentre attraversava la strada. Erano anni brutti ma brutti veramente.
Dopo alcuni mesi dalla morte dell’ultimo figlio, Anton vendette metà della casa. La divise in maniera verticale dall’alto verso il basso e prese per se la parte verso il monte e mise in vendita la parte verso valle. Nonostante la rude scorza contadina che obbligava a non pensare troppo ed a non perder troppo tempo dietro gli orpelli della vita ed a pensar solo al lavoro, forse troppo solo si ritrovava alla sera e troppo solo era già al mattino, che quando aprendo la finestra della stanza non poteva non vedere la strada che sotto i due tornanti aveva portato via la vita di uno dei suoi due figli neppure il tempo di sentirsi esaurito che fece la scelta. Fu una scelta difficile. La notte ci pensava e al mattino non apriva la finestra perché sapeva che gli sarebbe venuto da piangere e non si poteva cominciare una giornata piangendo… diceva. Alla fine si convinse che sarebbe stato bene disfarsi di quel supplizio e fece l’affare con un villeggiante che vi andava solo d’estate per una ventina di giorni.
Conosci la strada per Santiago? Dimmi, conosci la strada per Santiago? Dimmi, la conosci o no? Dai, dimmi se la conosci? Mi chiese ripetutamente un giorno molti anni dopo, quando ormai pareva, agli occhi di tutti, quasi rimbambito e parlava ripetendo in continuazione le stesse domande. Risposi di si e che sapevo di quella strada e aggiunsi: “Marrone come la cartina tornasole e che una volta camminai col bastone al centro del cerchio. Camminai col bastone e la fiamma guizzava e brillava, e sfavillava e rosseggiava… balda e audace come in una poesia. Ma il tredicesimo mese il palco fu viola e tutti urlarono… e io pure… E fu così che tornai dal cammino di Santiago. Tornai e da lì ricominciai a pregare… e non solo Dio.”  A quella risposta rimase in silenzio attonito. Da quel momento, per anni e anni, se m’incontrava per strada e mi fermava per parlare del più o del meno, ma mai ritornò su quell’argomento.
Ricordo però che fui proprio io a nominargli di quell’autista che fuggì con mezzo e tutto e dell’accendino rosa che pendeva sotto l’armadio. Un’altra volta gli raccontai del bus che occhieggiò la biondina mezza svestita e alla luce verdognola quasi improvvisamente, scoppiava la penombra e il buco via via si fece sempre più grave e quasi s’ammalò. Gli raccontai anche del proletario che piegò il drappo strappato e che ebbi appena il tempo di vederlo garrire, un attimo soltanto, da un ultimo vento bizzoso e da una mano non incline al ripiego. Gli dissi pure che quella volta, sorrisi felice di averlo veduto ancora, anche se solo per quell’istante, da poterlo almeno raccontare… e la cosa più bella fu poterlo raccontare proprio a lui. Ricordo, mi annuiva e fu lì che capii che era l’unico che capisse quel che intendessi dire e quindi azzardai: “E dove tutto non abbia perso il senso” aggiunsi:  “Ancora mi siedo volentieri e guardo, laddove il bianco, sia di bianco vestito, e il nero sia nero, di nero pregato. Non rinnego il mio tratto, lo ammetto, ed al mio petto poso spesso ancora una mano e ascolto battervi dentro il cuore.”
A quest’ultima battuta lui fece l'atto di applaudire - e poi lo fece sul serio - ripetendo una specie di bravo bravo, che mi sembra ancora di rivederlo applaudire con gli occhi lucidi dalla commozione…
Poi nella sua vita si sposò ancora una volta ed ebbe un figlio che chiamò come io mi faccio chiamare ed ebbi anche la fortuna di diventargli amico e fu proprio egli che mi parlò di lui.
Ma questa è un'altra inimmaginabile pagina per un altra sera intorno al fuoco di questo camino che è il nostro scrivere e il nostro leggere quaggiù tra noi...

Lettera d'amore

Tu, amore mio che mi domandi sempre di parlarti del nostro futuro, oggi voglio scriverti cosa penso veramente dalla parte più profonda del mio cuore e perdonami se parlerò di presente e di passato costruendo metafore su metafore, confuse immagini nei tempi e similitudini allegoriche tra strofe e passi; righe in rima nei modi e scioglilingua poetici a cavallo tra poesia e prosa come fosse un gioco che mi riesce perché mi ci trovo sempre, quando scrivo a te, come un gatto sul tetto.
 Sai anche noi camminiamo sullo stesso bordo, al ciglio delle stesse tegole scosse, sempre mosse, legati da un’unica mano e sul foglio di questa carta che vola agli spesso imprevisti vortici dei tempi, sta scritta la poesia della mia vita con te. Ma troppo dentro questo soffio di vento stiamo, che a volte ne ho paura io stesso. E in questi pochi attimi di vita di questi prossimi infiniti anni con te, a volte immensi amori perduti e sogni infranti come fantasmi vagano e uniche sono le mobili parvenze che vagamente a volte compiamo. Strade di gesti che lastrichiamo d’inutili parole. Spesso perdiamo allora la storica memoria persino difficile a dimenticarsi dal tanto male di olocausti compiuti ed erigiamo approssimative scuse o ci accontentiamo di un suono mediatico e di una lacrima che scivola facile o del falso sorriso dello stupido al potere.
E per le occasioni uniche perdute? A volte, in questo caso un insulto sta a difenderci o un sussulto sta ad amare. Ma il tempo passa e grava presente nel sogno di un istante, nella paura di sempre nell’atavico rispetto per la Signora, solo perché prima o poi busserà alla nostra porta e non per altro.
Quindi per lasciare qualcosa: scriviamo, e come sempre io scrivo e ci domandiamo: dove andiamo? Perché dobbiamo? E senza una vera risposta ci sentiamo così come adesso siamo, una povera pietra che rotola; per non doverci pentire e al peso del cuore non riuscire mai e continuamente provare pur di non lasciare nulla di intentato; destinati poi, a non vedere legata alla precedente la nuova generazione, che resta eternamente legata a identici sogni: ma distrugge pur di ricominciare a costruire sulle macerie di chi ci ha lasciato, non prima di aver gettato irriverenti il sale sull’appena consegnato.
Figli contro i padri o lotte perdute così diabolicamente ripetute. E poi le nuove invenzioni:
bambini clonati, dna di animali estinti o dittatori riabilitati o peggio: perdonati.

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