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Una domenica bestiale - Ivan Bui (giovannineri)

Era una domenica come tante. Sveglia alle nove, la sensazione di libertà che ti deriva dal non avere impegni, orari da rispettare; barba (rito consumato più lentamente del solito), doccia lunghissima, una corsa in edicola e tappa al bar per il miglior caffè della settimana.
“Sapevo di trovarti qui:” la voce era inconfondibile, d’altronde come si fa a dimenticare? Negli ultimi nove anni, avevo passato più tempo con lei, che con me stesso. Era finita da quasi un anno. Ogni tanto ci si rivedeva, c’erano stati momenti di intimità, rubati al buon senso, soprattutto, i primi mesi di separazione, poi come in tutte le cose, il tempo si incarica di risolvere ogni situazione. “Dovrei parlarti di una cosa, ma non ora, mi aspettano; perché non ci vediamo nel pomeriggio?” Ero rimasto in silenzio, ma lei aggiunse “al solito posto” e raggiunse l’uscita, in gran fretta.
Faceva caldo, nonostante un vento gradevole e la vegetazione, talmente fitta, da impedire ai raggi del sole di infiltrarsi. Il solito posto, consisteva in un angolo stupendo sul Po, che avevamo scoperto casualmente. Uno spazio di pochi metri quadrati, che per la fitta vegetazione e una strana disposizione degli alberi, non era visibile da nessun punto, nemmeno dalla strada, nonostante fosse molto più in alto. Inizialmente, lasciavamo l’auto in un piccolo spiazzo, successivamente, con qualche accorgimento, riuscimmo ad infiltrarci; il passaggio era millimetrico, ma così eravamo davvero isolati. Non c’era nessun segno che testimoniasse qualche violazione, probabilmente, dall’ultima nostra sortita, nessuno vi aveva messo piede. Laura si girò di scatto e mi baciò, la lingua per lei era un’arma e naturalmente, ne era consapevole. Risposi al bacio, anche se temevo le ripercussioni. Conoscevo fin troppo bene quel senso di vuoto, i sensi di colpa, i rimpianti che si materializzavano subito dopo e ti accompagnavano per giorni. Cominciò a spogliarsi e in pochi secondi era nuda. Rise di gusto, “non ho perso l’allenamento” e con le dita dei piedi cominciò ad accarezzarmi il viso. Allungai la mano e la toccai, ebbe un sussulto tale che finì per sbattere la testa nel vetro del finestrino. Cominciò un gioco feroce, mi mordicchiava la pancia, fino alle cosce, ignorando il pene, che nel frattempo era diventato talmente duro da provocarmi un dolore intollerabile. Poche volte mi era capitato di vederla così, non si curava di niente, sembrava non le interessasse nient’altro, mi venne sopra e mi obbligò a penetrarla, non ricordo i particolari, anzi non ricordo praticamente niente, se non che lei urlava talmente forte, da avere il timore che qualcuno accorresse, ma fu un attimo, perché fui totalmente assorbito.
Non so quanto durò, il tempo non aveva più importanza, oltre tutto, l’ambiente contribuiva a rendere irreale, una situazione già incasinata; sembrava di essere sospesi nel verde, era difficile seguire l’evoluzione della luce. Scesi dall’auto e raggiunsi il piccolo pontile, probabilmente costruito da qualche pescatore, inutilizzato da molto tempo, a giudicare dallo stato del legno. Sfioravo l’acqua con le mani, l’odore di sesso era più forte di tutto; Laura mi raggiunse e disse che sapevo di lei; era una delle sue frasi preferite. “Cosa ti succede?” Rispose che da troppo tempo non si sentiva più una donna, che per avere un orgasmo, doveva toccarsi pensando a noi, ai nostri momenti. Cominciò a ricordarne qualcuno e finì che ricominciammo.
Il buio rendeva ancora più affascinante quel luogo, i raggi della luna riflessi nell’acqua illuminavano i piccoli cerchi di acqua che si staccavano di tanto in tanto e morivano prima di toccare la riva. Nessun artista avrebbe potuto dipingere, in modo fedele, quel quadro. Nessun poeta avrebbe potuto descrivere quelle sensazioni.
Riportare l’auto sulla strada fu un’impresa.
“Ho fame”.
Un bel modo per tornare alla realtà. “Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno” e proposi di fermarci a cena, nel nostro ristorante abituale, ma lei rifiutò, senza dare spiegazioni. Mentre l’accompagnavo al parcheggio, mi disse che non ci saremmo più rivisti, che aveva bisogno di risposte e le aveva avute. “Per favore, non cercarmi.” Fui sul punto di sbottare, io non l’avevo mai cercata e anche questa volta, aveva fatto tutto lei, ma non fiatai. “Non sono pentita, ma non posso continuare così. Però, che peccato, insieme facciamo faville. O no?” Per fortuna eravamo arrivati al parcheggio e la salutai con un bacio sulla guancia, sperando di finirla lì.
Laura mi prese per i capelli e mi ficcò la lingua in bocca, così forte che cominciai a tossire; dovetti strattonarla per liberarmi; “stronza, assurda e stronza, reciti la parte, implori di non cercarti, ma vai a ……..” Sembrava non sentirmi, anzi si avvicinò di nuovo e mi strinse forte, mi baciò, questa volta con dolcezza e guardandomi negli occhi, con espressione un po’ ebete “ho detto che tu non mi devi cercare, non ho mai detto che non lo farò io. Stronzo, supponente e cazzone. Ciao”.
Cominciai a contare mentalmente e al nove, come da copione, il cellulare, “dimenticavo di dirti che ti amo, che sto con uno a cui voglio molto bene e che sento ancora il tuo sapore, l’odore di sesso. Ciao amore”.
Non avevo ancora finito la sequenza di bestemmie, che il cellulare squillò di nuovo: “Ah, guai a te se mi tradisci”. Non mi diede il tempo di rispondere. Come si fa a combattere contro i mulini a vento? Un giro di chiave e via.

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-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Supervisione Paolo Rafficoni
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