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Il sagrestano - baccarat

“Abbiamo trovato la cassettina di legno, chiusa da un piccolo lucchetto, ben nascosta dentro ad un confessionale tarlato e in disuso nella sacrestia di una piccola chiesa di campagna. Le pareti scrostate, i mobili vecchissimi, un antico arazzo sbiadito alla parete che raffigurava un santo a cavallo armato di una spada ci avevano come catapultati in un’altra epoca. Da un lato c’era il prete che continuava a ripetere che eravamo nella casa di Dio e che dovevamo essere timorati, dall’altra c’era Ignazio, il sagrestano, muto, con la testa china in mezzo a due appuntati che sembravano due angeli custodi… Mi ricordo che istintivamente ho guardato fuori dalla finestrella alle mie spalle e solo la vista dell’auto -una panda nuova di zecca che da pochi giorni il comando ci aveva fornito in dotazione- mi aveva riportato con i piedi per terra…”

L’arrivo nel negozio di un ragazzino magro e brufoloso interrompe momentaneamente il racconto di Bruno, maresciallo dei carabinieri in servizio presso una cittadina del Piemonte. Mentre mi appresto a servire il primo cliente della giornata, vedo il mio amico guardarsi attorno con i suoi vivaci occhi azzurri, ora un po’ sbiaditi dagli anni, e colgo nello sguardo un’espressione a metà tra la tristezza e l’insofferenza. Il paese è travolto dai turisti: a quest’ora i bagnanti si muovono incolonnati in direzione del mare con il loro carico di asciugamani, cappellini, borracce lasciando nell’aria l’odore dolciastro delle creme abbronzanti, mentre i bambini schiamazzano eccitati e si portano appresso i secchielli di plastica colorati, pieni di biglie e di cianfrusaglie varie. Io ormai ci sono abituato, lui no e li vede come degli usurpatori e invasori.
Infatti scuote la testa e non appena siamo soli sbotta:
“Guarda quanta gente, ma sono venuti tutti qua in ferie?”
“E per fortuna che sono qua, altrimenti mi dici come farei a mangiare?” gli rispondo di rimando.
Siamo seduti su due seggiole impagliate, proprio fuori dal mio negozietto di souvenir e articoli da mare “Ortigia”, che ho aperto da qualche anno per cercare di riempire il vuoto in cui sono precipitato dopo la morte della mia Rosa. Stamane Bruno mi ha aiutato a esporre la mercanzia davanti al negozio e ora chiacchieriamo tranquilli, circondati dai canotti gonfiabili, stuoini, pinne, salvagente a forma di paperelle ed espositori vari.
Aggiungo:
“Guarda che te ne sei andato via trent’anni fa per fare carriera al nord, nel caso te lo fossi dimenticato, e le cose sono cambiate… Tu vieni giù una volta ogni morte di papa e vorresti trovare tutto com’era. Scommetto che pretenderesti di ritrovare anche il chiosco dell’Assuntina con le sue granite alla mandorla, giusto?”
Eravamo cresciuti attorno al chiosco dell’Assuntina. Ci si arrivava dopo aver fatto la discesa che dalla piazza del municipio portava al mare. Era al fondo del paese, vicino alla strada provinciale, poco più di una baracca circondata da quattro sgangherati tavolini di ferro e da qualche sedia pieghevole. Allora era il ritrovo preferito di tutti noi ragazzi, dove per poche lire potevamo gustare le minnulate migliori di tutto il siracusano. In quel posto erano nati i primi amori, si erano fatti litigi memorabili e discussioni interminabili, si era sognato su cosa avremmo fatto da grandi.
“Certo che mi piacerebbe! Lo sai bene… Il mio ricordo è ancora talmente vivo che rivedo tutto come allora e continuo a scendere per quella strada, inesorabilmente, ogni volta che vengo al paese illudendomi di vedere, giù al fondo, il chiosco rosso dell’Assuntina” mi risponde Bruno con voce venata dalla malinconia; poi cambiando d’improvviso tono conclude: “Mah…mi sa che sto diventando un vecchio rincoglionito che tra un po’ si mette a piangere per la commozione. E l’Assuntina, a pensarci bene, oggi dovrebbe avere più di cento anni: era già vecchissima allora.”
Bruno ride con quel suo modo di fare che negli anni non è cambiato, una risata quieta, poco più di un gorgoglio sommesso.
“Ecco, bravo, te lo stavo proprio per dire io. Vai invece avanti con la storia che hai iniziato perché ora sono curioso di sapere come va a finire…”
Ogni tanto gli chiedevo di raccontarmi qualcosa delle indagini che faceva lassù e a volte mi accontentava, come oggi.
“Quella sacrestia di cui ti stavo parlando è la sacrestia di una chiesetta situata in aperta campagna, una specie di santuario che viene aperto solo una volta all’anno, in occasione della festa di Sant’Anna: per tutto il resto del tempo nessuno ci va perché fuori mano e anche perché il portone è chiuso a chiave…”
“E scommetto che le chiavi le aveva il sagrestano, giusto?”
“Già, proprio così. Quando eravamo andati nella casa parrocchiale, il prete aveva messo a soqquadro tutto l’ufficio prima di ammettere che erano sparite. Si era giustificato dicendo che la parrocchia era grande e quindi non riusciva a star dietro a tutto; aveva asserito che prima o poi sarebbero saltate fuori. Per noi, però, quelle chiavi sparite erano un tassello importante. Insomma, eravamo sicuri che ad uccidere quelle donne fosse stato Ignazio, ma dovevamo trovare una certa cosa che l’assassino aveva nascosto e quel santuario sempre chiuso poteva essere un nascondiglio ideale.”
“Ma come le uccideva, ‘sto fetuso?”
“Le strangolava, dopo averle immobilizzate e dopo aver…”
Bruno si interruppe, pensoso.
“Dopo aver fatto cosa?”
“Beh… se proprio lo vuoi sapere, le spogliava completamente, poi le pettinava e le truccava. Quando erano belle –uso una sua espressione- le succhiava a lungo i capezzoli per farli diventare turgidi. Solo allora accendeva le candele e lasciava gocciolare sopra la cera fino a ricoprirli: ne abbiamo trovato traccia sui seni di tutte e tre le donne uccise. A quel punto si masturbava davanti a loro, poi le ammazzava. Sono state proprio le candele a portarci sulla strada giusta. Gli esperti, dall’esame dei residui, avevano stabilito che erano candele comunissime, tipo quelle che si mettono in chiesa davanti alle madonne o ai santi.”
“Anche su c’è questa usanza?”
“Di giocare con la cera o di mettere le candele ai santi?” mi chiede Bruno ridendo.
“Scemo! Intendevo le candele ai santi…” rispondo ridendo a mia volta.
“Ma cosa pensi? Guarda che quelli di su –come li chiami tu- non sono dei miscredenti...”
Mi limito ad alzare le spalle e non rispondo. Bruno, allora, continua:
“Insomma, per farla breve, tra la storia delle candele e il fatto che le tre ammazzate fossero donne devotissime e sempre in parrocchia a dare una mano, ci siamo concentrati su questo Ignazio. Cinquant’anni mal portati, solitario e scontroso di carattere, cresciuto in un orfanatrofio. Nessun lavoro stabile, dedicava tutto il suo tempo alla parrocchia come sagrestano tanto che il prete gli pagava una stanza e gli faceva correre qualche soldo per le sue esigenze. Uno psicopatico che nessuno aveva mai riconosciuto come tale…”
L’arrivo di una donna avvolta da un pareo a fiori rossi e arancioni interrompe il racconto del mio amico. La cliente guarda alcuni prezzi, poi si ferma davanti alle cartoline e fa girare più volte l’espositore. Io friggo, ma quella, con tutta evidenza, non ha la minima fretta. Alla fine mi porge tre cartoline, chiedendomi se ho i francobolli. Scuoto la testa e batto con rapidità lo scontrino alla cassa; la donna è appena uscita in strada che dico a Bruno:
“Ancora non so che cosa cercavate in quella cassetta…”
“La prova definitiva, te l’ho detto! Pensa che prima che l’aprissimo, Ignazio si è messo a piangere come un bambino e a dire tra i singhiozzi: ‘Mi perdoni don Piero, mi perdoni’ come se il perdono di don Piero fosse per lui la cosa più importante. Io sapevo che cosa avrei trovato, ma non ti nascondo che sono rabbrividito nel vedere quei sei capezzoli ricoperti di cera allineati sul fondo della cassetta, sopra ad un pezzo di stoffa. Don Piero ha fatto in tempo a farsi il segno della croce, prima di uscire fuori di corsa, pallido come un morto, a vomitare persino l’anima...”
Rimaniamo in silenzio per un po’, ognuno perso nei suoi pensieri.
“Mi fosse venuto un mal di pancia, invece di chiederti di raccontarmi una storia… Però, anche tu Bruno, potevi raccontarmi qualcosa di meno orribile…”
“Sai che giorno è oggi?” mi fa lui di rimando.
“Certo, oggi è il 26 luglio.”
“Ecco, appunto, oggi è Sant’Anna” e aggiunge con tono semiserio:
“Chissu t’avia a cunturi, nun ci pozzu fari nenti e macari nun haiu culpa...” (*)


(*) Questo ti dovevo raccontare, non ci posso fare niente e in ogni caso non ho colpa.

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-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Supervisione Paolo Rafficoni
-Racconto di baccarat
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